Tre studi sembrano confermare che la trasmissione intrauterina del coronavirus sia possibile, anche se rara. Tracce del virus sono state trovate nella placenta e nel sangue del cordone ombelicale di neonati positivi.
Tre studi sembrano confermare che la trasmissione intrauterina del coronavirus sia possibile, anche se rara. Tracce del virus sono state trovate nella placenta e nel sangue del cordone ombelicale di neonati positivi.È possibile trasmettere il coronavirus in gravidanza? Il tema è molto attuale e controverso, ma la risposta sembra essere affermativa. In occasione del congresso Aids 2020, infatti, l’Università Statale di Milano ha presentato uno studio italiano (non ancora sottoposto a revisione paritaria) che di fatto sembra confermare tale tipologia di trasmissione.
Nello specifico, stando a quanto riportato dallo studio, due neonati sono risultati positivi al COVID-19 subito dopo nascita e tracce del virus sono state evidenziate nel sangue del cordone ombelicale, così come nella placenta.
Lo studio italiano
Entrando nel dettaglio, lo studio italiano è stato condotto su 31 donne incinte e ha visto coinvolti un team di studiosi dell’Università Statale di Milano che hanno collaborato con l’Ostetricia dell’Ospedale Sacco, l’Ospedale San Gerardo di Monza e il Policlinico San Matteo di Pavia.
Dall’analisi degli scienziati è emerso come i due bambini nati positivi abbiano contratto il virus direttamente nell’utero durante la gestazione, dal momento che tracce dell’RNA virale e immunoglobuline/anticorpi IgM sono state trovate nel cordone ombelicale e nella placenta.
Lo studio francese
Lo studio italiano, tuttavia, non è un caso isolato. Su Nature Communication, infatti, recentemente è stata pubblicata anche un’indagine condotta da un gruppo di studiosi francesi dell’Università Paris Saclay che ha fornito un’ulteriore conferma scientifica ad un possibile passaggio transplacentare del coronavirus.
Per dimostrare come il virus sia trasmissibile al feto, il team di esperti neonatologi - guidati dal professor Daniele De Luca e dalla professoressa Alexandra Benachi - ha effettuato una serie di test mirati sui neonati e ha analizzato una molteplicità di campioni biologici.
La paziente affetta da COVID-19
Tra le casistiche analizzate per lo studio, spicca quella di una giovane madre francese che ha contratto il virus verso la fine della gravidanza, quasi a ridosso del parto. Ricoverata in ospedale, la donna si è sottoposta ad appositi tamponi nasofaringei e rettali e gli stessi sono stati eseguiti anche sul neonato al momento della nascita e dopo 3 e 18 giorni di vita, dando esito positivo.
Ma non è tutto. Dalle successive analisi, infatti, è emerso che anche il sangue del bambino e il lavaggio broncoalveolare erano positivi e che pertanto il virus necessariamente aveva raggiunto la placenta, si era replicato in loco, l’aveva infettata e da qui aveva raggiunto anche la circolazione del neonato.
Lo studio statunitense
Alle medesime conclusioni è arrivato anche un gruppo di scienziati statunitensi dell’Università del Texas sudoccidentale che ha pubblicato uno studio ad hoc sul Pediatric Infectious Disease Journal.
Durante le loro ricerche, infatti, gli studiosi coordinati dalla dottoressa Amanda Evans si sono imbattuti in una bambina texana nata prematura da madre diabetica che a 24 ore dalla nascita manifestava una serie di sintomi riconducibili al COVID-19. Da qui sono stati eseguiti i tamponi specifici che hanno confermato la positività della piccola.
Il team, dunque, ha esaminato la placenta e tutti gli elementi raccolti hanno dimostrano che l’infezione era stata trasmessa durante la gravidanza attraverso la placenta stessa.
I rischi emersi dagli studi
Il dibattito è ancora aperto, ma stando a quanto emerge da questi studi sembra che una possibile trasmissione del virus attraverso la placenta sia rara, ma possibile. Soprattutto durante l’ultima fase di gestazione.
Gli studi, comunque, hanno confermato che i feti non hanno avuto nessuna malformazione e che le gravidanze sono giunte al termine senza particolari complicanze. I dati raccolti sono un punto di partenza per migliorare i protocolli di gestione medica e con questa finalità verranno condotte ulteriori ricerche mirate nel prossimo futuro.
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