Insieme a Roberta Bruzzone ha scritto il libro Favole da incubo. Dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora: «Violenza sulle donne? Abbiamo poche leggi, ma fatte bene. Il problema è la loro applicazione».
Insieme a Roberta Bruzzone ha scritto il libro Favole da incubo. Dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora: «Violenza sulle donne? Abbiamo poche leggi, ma fatte bene. Il problema è la loro applicazione».Favole da incubo. Dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora. È questo il titolo del libro scritto a quattro mani dalla criminologa Roberta Bruzzone e dalla curatrice del sito “In Quanto Donna” Emanuela Valente: una raccolta di 11 storie di donne vittime di uomini sbagliati, di compagni carnefici, guidati nei loro gesti da stereotipi vecchi millenni e non, attenzione, da qualche tipo di raptus, come troppo spesso viene raccontato in televisione o scritto sui giornali. La violenza si può prevenire, figuriamoci il femminicidio: una lezione da tenere a mente e che, purtroppo, spesso dimenticano proprio le donne. Ne abbiamo parlato con Emanuela Valente, coautrice del libro pubblicato da De Agostini in concomitanza con la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza di genere.
Come avete scelto i casi inseriti nel libro?
«Abbiamo cercato di fare una panoramica più variegata possibile, per far capire la trasversalità del femminicidio, che si può verificare in modi e ambiti diversi, coinvolgendo persone di qualsiasi età, a volte anche dei bambini. In tutta Italia, da Nord a Sud, in qualsiasi classe sociale. Non ci sono donne più esposte di altre a questa problematica: il femminicidio può toccarci davvero da vicino».
Tra questi, c’è un femminicidio che ti ha colpito più di altri?
«Quella che conoscevo di meno prima di scrivere il libro e che poi ho voluto fortemente inserire nel volume: la storia di Arianna Flagello, istigata al suicidio dal fidanzato. Da questa vicenda si può capire come il femminicidio possa nascere dalla violenza psicologica. È una situazione che può capitare a tante ragazze, anche a quelle più forti come lo era Arianna».
Sbagliando, spesso sottovalutiamo la violenza psicologica.
«Esatto. È anche peggiore di quella fisica, perché segna profondamente nell’anima senza lasciare traccia nelle lastre o nei referti del pronto soccorso. Resta dentro e spesso rimane lì, perché è difficile farsi credere. Tante volte sono le vittime, abituate a farsi “menare” psicologicamente, ad assumere atteggiamenti che fanno pensare: “Ma sì, forse non sta tanto bene di testa lei”. E questo non fa che isolare ulteriormente la vittima».
Qual è lo stereotipo patriarcale più ricorrente, nei femminicidi?
«Lo stereotipo del possesso. Ciò che porta l’uomo a uccidere la donna che reputa di sua proprietà è il sentimento atavico che deriva da millenni durante i quali l’uomo ha potuto decidere la vita e la morte della moglie. E che evidentemente non è stato scardinato fino alle radici più profonde. Per cui, nonostante oggi ci siano leggi che proclamano la parità dei sessi, in realtà per tanti uomini non è così».
Un paragrafo del libro si intitola: “Le donne, le più grandi nemiche di sé stesse”. In che modo lo diventano?
«Attraverso due modalità. La prima è soggettiva e riguarda le donne che pensano di essere proprietà dell’uomo o di avere dei doveri nei suoi confronti, tollerandolo, perdonandolo e accudendolo qualsiasi cosa lui dica o faccia. In questo caso la donna è vittima di sé stessa. Poi ci sono donne che spingono le vittime di violenza a rimanerlo, non credendo alle loro denunce».
Ogni “favola da incubo” del libro ha degli insegnamenti. Quale, tra tutti, dovrebbero sempre tenere a mente le donne?
«Spesso si dice: “Bisogna andarsene al primo schiaffo”. Io invece dico che bisogna imparare a riconoscere i segnali che portano allo schiaffo: non dobbiamo accettare di essere trattate male. Anche solo quando veniamo criticate nel vestire, c’è qualcosa che non va. Il nostro compagno non dovrebbe mai farci sentire inferiori. Dobbiamo affermare la nostra personalità, ciò che siamo e vogliamo essere. Più facile a dirsi che a farsi: la sfida è di mettere in pratica questi slogan nelle piccole azioni di ogni giorno».
Nel volume paragonate la violenza sulle donne a una pandemia. Che punti in comune ci sono?
«Sicuramente è una pandemia, perché siamo tutti a rischio e può colpire chiunque. Come per il Coronavirus indossiamo la mascherina e ci laviamo le mani, dobbiamo imparare a fermare comportamenti violenti, a evitare persone che alzano le mani, a denunciare dopo la presa di consapevolezza. E qui ci sarebbe da parlare delle istituzioni, che spesso non credono alle vittime…».
A proposito di Covid-19, durante il lockdown c’è stato un boom di violenze domestiche.
«C’è stata grossa impennata di richieste di aiuto, in tutto il mondo. Non solo in Occidente, ma anche ad esempio nella Striscia di Gaza. La costrizione dentro casa ha fatto sì che ci fossero molti più episodi di violenza. Sicuramente un nuovo lockdown, in tal senso, sarebbe molto pericoloso. In modo drammatico, perché moltiplica le occasioni di violenza».
Hai accennato alla Striscia di Gaza. Rimaniamo in Europa: l’Italia rispetto agli altri Paesi com’è messa?
«In Europa la situazione è omogenea, ad eccezione forse del Regno Unito. Non perché là si verifichino meno casi, ma negli ultimi anni c’è stata una presa di coscienza riguardante la violenza domestica, che ha portato all’adozione di misure efficaci, come il coinvolgimento di scuole, posti e datori di lavoro: si è creata una specie di rete di solidarietà nella società, che permette di riconoscere e accogliere le donne in difficoltà. Questo succede anche in altri Paesi, come Svezia e Norvegia, che durante il lockdown hanno coinvolto gli insegnanti per verificare se ci fossero bambini con difficoltà dentro casa. La Francia rispetto all’Italia è più presente a livello istituzionale, nel senso che all’interno dei commissariati c’è un ufficio preposto, dove una poliziotta psicologa raccoglie le denunce. Per quanto riguarda i numeri, stiamo parlando di un Paese dove la situazione per le donne è però sfavorevole: sui numeri influisce la popolazione di origine maghrebina, che ha una cultura ancora arcaica, la quale fa aumentare sensibilmente le richieste di aiuto. Per quanto riguarda l’Italia, siamo a metà classifica in Europa. Abbiamo poche leggi in merito, ma fatte bene: il problema è la loro applicazione, visto che chi dovrebbe farle rispettare, uomo o donna, si fa spesso condizionare dagli stereotipi raccontati nel libro, che ha introiettato dentro di sé».
Curi l’osservatorio “In Quanto Donna”. C’è qualche dato che ancora non conosciamo sul femminicidio?
«Un dato che non conosciamo in assoluto non c’è, sappiamo che una donna viene uccisa ogni due giorni. Quello che non è stato approfondito è quante di esse avessero sporto denuncia prima di essere ammazzate. Numero che sarà presumibilmente elevato, ma difficile da rilevare. Dovremmo approfondire i “perché” di un femminicidio, che non è mai qualcosa che avviene all’improvviso».
Te lo volevo proprio chiedere. Che cosa provi ogni volta che senti o leggi la parola “raptus”?
«Penso che la vogliono fare corta, sbrigarsi, non approfondire, mettere in discussione la sacra istituzione della famiglia italiana: matrimonio, figli, etc. Uno scoglio culturale ancora troppo ingombrante. La verità è che scientificamente solo lo 0,01% dei femminicidi è causato da un raptus e, anche per quanto riguarda questa percentuale, la non premeditazione non esclude la presenza di segnali premonitori».