Se oggi sembra che il più grande nemico del Pianeta sia la plastica, qualche anno fa gli occhi erano tutti puntati sul buco dell’ozono. Ma che fine ha fatto quest’emergenza ambientale? Siamo sicuri di averla risolta?
Se oggi sembra che il più grande nemico del Pianeta sia la plastica, qualche anno fa gli occhi erano tutti puntati sul buco dell’ozono. Ma che fine ha fatto quest’emergenza ambientale? Siamo sicuri di averla risolta?Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta non si parlava d’altro. Il buco dell’ozono era presentato come la più grave minaccia per il nostro Pianeta, tant’è che le aziende di bombolette e spray di ogni genere si sono trovate costrette a riformulare in fretta e furia i loro prodotti, per garantire che fossero innocui. Una mobilitazione che, per certi versi, ricorda quella a cui assistiamo al giorno d’oggi per la plastica negli oceani. A distanza di un paio di decenni, però, sul buco nell’ozono sembra calato il sipario. La Giornata mondiale per la preservazione dello strato di ozono, che cade il 16 settembre, ci sembra proprio l’occasione giusta per chiederci cos’è successo: il problema è stato sconfitto o l’abbiamo semplicemente dimenticato?
Cos’è il buco dell’ozono
Per rispondere a questa domanda ci conviene fare un piccolo ripasso di scienze. L’ozono è una molecola composta da tre atomi di ossigeno (infatti la sua nomenclatura chimica è O3) e, sotto forma di gas, si concentra nell’atmosfera terrestre, a un’altitudine compresa fra i 15 e i 35 chilometri. Lì forma uno strato, detto ozonosfera, che assorbe il 100% dei raggi UVC e oltre il 90% dei raggi UVB emanati dal sole, lasciando passare soltanto i raggi UVA, che sono indispensabili per la vita sulla Terra (e che nel nostro piccolo conosciamo abbastanza bene, perché sono quelli che ci fanno abbronzare!). Per farla breve, senza l’ozono non potrebbe esistere nemmeno la specie umana.
Se è così, possiamo immaginare l’allarme scatenato dalla comunità scientifica quando ha scoperto che lo strato di ozono si stava assottigliando, soprattutto ai Poli. Le variazioni in realtà ci sono sempre state, ma nelle epoche passate erano lente e graduali e, così, davano agli ecosistemi il tempo di adattarsi. Quelle avvenute negli ultimi decenni, invece, sono diverse, rapide, imprevedibili. Perché la colpa è dell’uomo.
La massima estensione mai registrata del buco dell’ozono nell’Antartide, a settembre 2006. Credits NASA / pubblico dominio.
Il protocollo di Montreal
Gli indiziati speciali sono i gas clorofluorocarburi (CFC), che dalla seconda metà del Novecento sono stati usati in quantità massicce come liquidi refrigeranti in frigoriferi e condizionatori, come propellenti nelle bombolette spray e negli estintori, come solventi e isolanti termici. Una volta immessi nell’atmosfera, i CFC salgono fino alla stratosfera, dove vengono spezzati dai raggi solari e liberano atomi di cloro, che distruggono l’ozono. L’aspetto ancora più preoccupante è che i CFC restano in circolazione, distribuendosi su tutto il Pianeta.
Da qui la colossale mobilitazione internazionale che ha portato prima alla Convenzione di Vienna (Convenzione per la protezione dello strato di ozono, siglata nel 1985) e poi al Protocollo di Montreal del 1987. Con questo accordo, 197 Paesi (tra cui l’Italia) si sono impegnati a ridurre drasticamente la produzione e il consumo di tutte le sostanze dannose per l’ozono, in primis i tanto temuti CFC. Tre anni dopo è arrivato anche il Fondo Multilaterale Ozono, volto ad affiancare in questo percorso anche i Paesi in via di sviluppo. Da allora, il fondo ha erogato più di 3,2 miliardi di dollari, suddivisi in circa 7.000 progetti.
Le condizioni del buco dell’ozono, oggi
La prima cosa da dire è che il Protocollo di Montreal ha funzionato. Nel mese del gennaio del 2018, per la prima volta la NASA è stata in grado di dimostrare che il buco dell’ozono si è ridotto circa del 20% rispetto al 2005. Ad attestarlo è il satellite Aura, che per tutti quegli anni ha monitorato ogni giorno i livelli di ozono durante l’inverno antartico, che va dall’inizio di luglio alla metà di settembre. Questo successo – affermano chiaro e tondo gli scienziati – è merito di tutti gli Stati che hanno vietato i clorofluorocarburi.
Possiamo tirare un sospiro di sollievo, quindi? Purtroppo, non ancora. Solo pochi mesi dopo questo storico annuncio, la prestigiosa rivista scientifica Nature ha pubblicato uno studio della Noaa (l’Amministrazione nazionale oceanica ed atmosferica degli Stati Uniti) che si concentrava su uno specifico gas, il CFC-11, usato in aerosol e solventi. È vero, sostengono gli scienziati, che la sua concentrazione in atmosfera è diminuita costantemente a partire dal 2002. Ma dal 2012 è successo qualcosa di strano: questo calo è visibilmente rallentato, soprattutto nell’emisfero meridionale. Anche tramite un secondo articolo pubblicato sempre da Nature a maggio 2019, gli scienziati suppongono che da qualche parte, in Cina, sia ripresa la produzione di CFC-11, in aperta violazione del Protocollo di Montreal.
La vicenda, insomma, è ancora tutta da chiarire. E chissà quando potremo mettere la parola “fine” a questa minaccia per i delicati equilibri del nostro Pianeta.
Foto apertura: grytsaj / 123rf.com