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Manon Soavi della Scuola Itsuo Tsuda: «Essere liberi rende gli altri liberi»

Manon Soavi ha iniziato a praticare l'Aikido all'età di sei anni e non ha mai smesso. Oggi fa l'insegnante. L'abbiamo intervistata.

Manon Soavi è insegnante di Aikido, una "non-arte marziale" grazie alla quale «l’essere trova lo spazio per respirare». Nata in Francia 37 anni fa, ha iniziato a praticare l'Aikido all'età di sei anni, e non ha mai smesso. Oltre a insegnare, lavora nella comunicazione digitale per delle associazioni e ha lavorato come pianista concertista e accompagnatrice per una decina d'anni. Non è mai andata a scuola, rifiutando nettamente il condizionamento che questa impone ai bambini, orientandoli su percorsi predefiniti e 'maschiocentrici', e quindi togliendo loro libertà. Durante il nostro incontro ci ha parlato della sua esperienza, della sua formazione, del valore dell'Aikido e soprattutto ci ha invitato a riflettere su una diversa possibilità di relazione tra individui, che guardi all'essere umano, all'essenza, anziché alle "maschere" che la società ci obbliga, fin da piccoli, a indossare. L'Aikido, ha sottolineato, può aiutarci a rendere più autentico il nostro cammino, a "risvegliare la nostra forza interiore, soffiare sulle braci, e rianimarci".

Intervista a Manon Soavi, insegnante di Aikido

Non sei stata scolarizzata: come hai trascorso la tua infanzia? Non hai mai avuto voglia di andare a scuola?

A 5 anni ho voluto provare ad andare a scuola, mi chiedevo come fosse! Ho resistito 4 giorni prima di decretare che non ci sarei mai più tornata. Avevo capito! Non potevo restare in un luogo nel quale se dicevo “no” non veniva rispettato. Ovviamente posso rispettare delle regole, ma il rispetto deve essere reciproco, e a scuola non lo è.

Non ti sei mai sentita emarginata? Com’è stato entrare in contatto con il mondo “esterno”? Quali differenze notavi, se ne notavi, tra te e gli altri nella percezione delle cose del mondo? Cosa ti stupiva rispetto all’idea che avevi maturato nei tuoi primi anni di vita?

Certo che sono una emarginata! Ma in realtà la maggior parte delle persone si sentono marginali, differenti, e ne soffrono ma non ne conoscono davvero il motivo. Lo so perché sono diversa e perché voglio restarlo.

Durante l’adolescenza pensavo di soffrire di una certa solitudine, un allontanamento dagli altri ragazzi della mia età, ma alla fine ho scoperto che non soffrivo di solitudine ma per la delusione che il mondo fosse così, per la delusione della povertà dei rapporti umani. E ovviamente delusione del rapporto tra uomini e donne. E non soltanto della dominazione maschile, ma anche e soprattutto dell’atteggiamento delle donne stesse.

E col tempo ho capito che c’era di peggio. C’è la sofferenza della solitudine in mezzo alla folla. La solitudine inconsolabile che incontriamo a scuola, l’essere soli davanti alle difficoltà. Soli di fronte al mondo. Io non sono mai stata sola. I miei genitori sono sempre stati con me, in ogni istante, finché non sono stata pronta ad affrontare il mondo, fino a che non sono stata abbastanza forte.

A volte la gente pensa che sia un modo di iper-proteggere un bambino che invece dovrebbe confrontarsi, cavarsela. Ma anche da un punto di vista marziale è un’assurdità. Non si manda un bambino che non è pronto a combattere su un campo di battaglia. O allora lo si manda a morte certa. Se gli si concede tempo, allora il giovane impara e un giorno, quando è abbastanza forte, spicca il volo, è pronto. E a quel punto credetemi, può sopportare molte cose, perché la sua forza è interiore. Anche se l’esterno si piega, l’interno non si spezza.

Il problema della forza esteriore acquisita durante l’infanzia per difendersi è che tende a crollare perché le basi non sono abbastanza forti. È così che ci si ritrova in situazioni insostenibili, come depressione, esaurimento o altro. Siamo così abituati a sopportare, che non sentiamo più in tempo che abbiamo bisogno di reagire. È quindi importante ritrovare la sensibilità che ci mette in allerta, e la capacità di reagire.

Una delle cose più strane e tristi è stata per me constatare le maschere che ciascuno indossa per apparire diverso da ciò che è. Più bello, più intelligente, più divertente. Constatare i ruoli delle donne, gatte morte, manipolatrici, falsamente deboli, in trepida attesa del principe affascinante per, finalmente, vivere! Che tristezza! Tutti questi codici viziosi, che determinano la gerarchia dei rapporti umani. Io conoscevo il rispetto, la gerarchia no. E il mondo faceva esattamente l’inverso, nessun profondo rispetto per l’altro, ma ordini, divieti (da trasgredire ovviamente) e gerarchia. Era molto deprimente.

Ho avuto bisogno di tempo per percepire che alla fine il mio modo di essere attirava certe persone. Che essere se stessi provava semplicemente che era possibile. Rifiuto di giocare al gioco sociale, ne accetto certe regole superficiali, inevitabili per vivere in società, ma rifiuto la base del gioco. Forse allora alcuni si renderanno conto che in realtà basta non giocare più. Siamo noi stessi a mantenere la nostra prigione chiusa, abbiamo la chiave in mano ma abbiamo paura. Posso semplicemente servire a dire "è possibile" o come ha detto Fukuoka Sensei: "Non ho niente di eccezionale, ma ciò che ho intravisto è immensamente importante".

Secondo te è ancora possibile proporre questo tipo di esperienza nella società odierna?

Non è più difficile oggi di quanto non lo fosse ieri. I tempi cambiano e le difficoltà non sono le stesse. Ma le difficoltà per essere degli esseri umani autentici non sono nuove. La sola domanda è: cosa voglio? In che direzione voglio orientare la mia vita.

Oggi certo femminismo sembra quasi voler far coincidere totalmente l’idea di maschio e di femmina. Di fatto, però, esistono delle differenze biologiche innegabili: tu cosa ne pensi? Cosa vuol dire per te essere femministe/i?

Le differenze tra uomini e donne sono di ordine biologico, non dovrebbero essere di ordine sociale. Sono per il rispetto delle differenze. Ogni individuo è unico, differente. Certi sono corpulenti, altri magri, certi amano lo sport o piuttosto leggere per ore, alcuni riflettono prima di agire, altri mangiano quando sono nervosi. Siamo tutti differenti, e certo la differenza di funzionamento biologica conta enormemente. Ma questo non dovrebbe condizionare il nostro ruolo nella società, i nostri diritti, il nostro comportamento. Non si tratta di fare un modello unico, maschile evidentemente. Si tratta al contrario di rispettare ciascun essere nei suoi bisogni, nella sua singolarità.

Per me essere femminista è ovviamente cercare l’uguaglianza tra uomo e donna (che non sempre esiste, anche nei nostri paesi) ma essere femministe vuol dire innanzitutto avere coscienza che sono le donne per prime a perpetuare il condizionamento. Non si tratta di mettersi in posizione di vittima, perché noi siamo vittime e carnefici allo stesso tempo. Visto che noi perpetuiamo il modello educando i nostri bambini, siano essi maschi o femmine. Si tratta dunque innanzitutto di riflettere sul nostro stesso modo d'essere, su quello che veicoliamo tutti i giorni intorno a noi, ai nostri figli, alle nostre amiche. Riflettere sulla nostra cultura, sui nostri media, sulle nostre aspettative.

Essere femminista per me significa smettere di definirsi come «una femmina». E quindi anche smettere di vedere gli uomini come dei «maschi».Sono femminista nel senso che è oggi necessario per avanzare, come era necessario che le donne di ieri si battessero per certi diritti. Un giorno, forse, non saremo più né donne, né uomini, né neri, né bianchi, né giovani, né vecchi, ma semplicemente saremo degli esseri umani autentici.

Che cos’è la Scuola Itsuo Tsuda e qual è il tuo ruolo al suo interno?

La Scuola Itsuo Tsuda opera alla diffusione della filosofia pratica di Itsuo Tsuda, ritrasmessa da Régis Soavi, mio padre. Riunisce dei dojo in Europa interamente destinati alla pratica dell’Aikido e del Katsugen undo (Movimento rigeneratore). Io sono consigliere tecnico della Scuola, ovvero mi occupo dell’orientamento della stessa.

Nella Scuola Itsuo Tsuda praticate l’Aikido e il Katsugen undo (Movimento rigeneratore), qual è la loro particolarità?

Il Katsugen Undo è una base, una pratica che permette un risveglio delle capacità vitali di ciascun individuo, dunque una base per la nostra vita. Qualunque sia l’attività che noi esercitiamo, ritrovare un corpo naturale, che reagisce correttamente, è una necessità.

Per l'Aikido nella nostra Scuola è centrale la predominanza attribuita alla respirazione e alla sensazione del Ki piuttosto che l’aspetto sportivo o marziale. Noi pratichiamo cercando la fusione con il partner e non l’opposizione. L'efficacia marziale deriva dalla nostra capacità di essere nel momento giusto, nella posizione giusta, ma non è una finalità in sé.

Nella Scuola Itsuo Tsuda c’è una rilevante presenza femminile, sapresti dirci come mai, dal momento che le arti marziali sono un territorio prevalentemente maschile?

Già dai primi dojo che ha creato agli inizi degli anni '80, mio padre ha voluto dare “potere alle donne”. Ha sempre spinto in questa direzione. Dare potere alle donne non vuol dire toglierlo agli uomini! Ma in un mondo dove le donne non hanno potere, bisogna pur dargliene per sperare di arrivare all’equilibrio.

E poi ovviamente è l’orientamento della nostra pratica, la nostra attenzione alla sensibilità che si sviluppa a volte con la pratica del Katsugen undo e dell'Aikido, ad essere particolare. Le donne vi trovano certo un cammino che le tocca. Ma ci sono anche molti uomini nella nostra Scuola che aspirano a qualcosa di diverso da una escalation di forza e aggressività.

Il Maestro Ueshiba, il fondatore delll'Aikido, è stato un grande Budoka, temuto anche, ma ciò che fa la sua grandezza è l’essere tra i pochi ad aver superato questa dualità del combattimento. È la storia di tutta una vita per lui. Ma il regalo che ha fatto all’umanità è di parlare del fatto di andare al di là del combattimento. Che il budo poteva forgiare degli esseri umani capaci di far molto meglio rispetto al vincere sull’altro.

Nell’Aikido non c’è vittoria, c’è il superamento dell’opposizione e questo è molto diverso. È forse un’utopia, ma è la speranza di formare degli esseri capaci di abbassare le armi senza per questo divenire delle vittime. Pensiamo spesso che noi in Europa non ci battiamo più, siamo «i buoni»! Dimentichiamo un po’ troppo presto come trattiamo i più deboli, i più giovani, o i più dipendenti di noi. Le persone anziane, i malati, gli immigrati, i bambini, i bebè, tutti quelli a cui non lasciamo la scelta, tutti quelli che non ascoltiamo. Come parliamo alla donna delle pulizie, come alle persone a cui diamo degli ordini: siamo proprio così buoni? Siamo così privi di violenza? Di fronte a un’avversità qualsiasi il nostro primo riflesso è combattere, le donne come esseri sociali dominati si confrontano con questo ogni giorno. Quindi trovare un’altra via, è sicuramente una necessità più lampante per le donne, benché sia necessario per tutti.

In che modo la pratica dell’Aikido e del Movimento rigeneratore possono cambiare la vita di una persona, in particolare di una donna?

Proprio perché noi pratichiamo in una direzione di fusione e di «non fare». Non si tratta quindi di aggiungere qualcosa ma di sbarazzarci di ciò che ci intralcia, sia fisicamente che mentalmente, l’essere trova lo spazio per respirare. Un luogo in cui è possibile essere se stessi anziché apparire. Le donne in particolare hanno poco spazio per essere se stesse e queste pratiche possono aiutarci a uscire dal condizionamento sociale. È uno strumento, una via. Non si tratta di praticare e attendere un miracolo che ci renda belli, ricchi, e intelligenti. Siamo noi a dover camminare.

Quando hai cominciato queste due pratiche e cosa ti ha spinto a continuare?

Ho cominciato l'Aikido a sei anni e da allora non ho più smesso. Ho iniziato perché mio padre insegnava e, semplicemente, perché mi piaceva. Perché continuo? Innanzitutto perché mi è sempre piaciuto farlo e perché non ho l’impressione di aver terminato il mio cammino, tutt’altro. E poi è uno strumento per entrare in comunicazione con gli altri senza passare per le convenzioni sociali: è una comunicazione diretta, nel silenzio. Fare un cammino in compagnia di altre persone che camminano nella stessa direzione è davvero prezioso.

La tua è una realtà francese, c’è qualche possibilità per le donne italiane di seguire il tuo percorso?

Itsuo Tsuda ha lasciato nove libri: sono tutte indicazioni per chi s’interessa alla sua filosofia pratica. Sono tutti tradotti in italiano. Ma per praticare la cosa migliore è un dojo, e in Italia ce ne sono a Milano, Roma, Torino ed Ancona. Ci sono stage e pratica quotidiana. Il dojo è un pozzo dove puoi attingere per ritrovarti.

Montaggio: Valentina Mele
Riprese video: Valentina Mele e Claudiu Rednic
Articolo di Giusy Gullo