Fedez ha pubblicato uno stralcio della sua seduta dallo psicoterapeuta per non dimenticare il dolore vissuto nei giorni della malattia. Esiste un modo sicuro di condividere questi “dati sensibili”? Il parere dello psicologo Andrea Sales.
Fedez ha pubblicato uno stralcio della sua seduta dallo psicoterapeuta per non dimenticare il dolore vissuto nei giorni della malattia. Esiste un modo sicuro di condividere questi “dati sensibili”? Il parere dello psicologo Andrea Sales.Nella serie The Ferragnez anche i più lontani dal mondo social hanno imparato che per Chiara Ferragni e Fedez la psicoterapia non è un tabù. Alcune parti delle puntate della serie sono state girate nello studio di un terapeuta di coppia. Chi segue i due anche su Instagram, sa bene quanto sia emotivo Federico Lucia e quanto la scoperta del tumore al pancreas lo abbia provato.
Ma Fedez è solo una delle voci social che parla anche di malattia e sofferenza. Il racconto del dolore – fisica, emotiva, sociale – è un tema ricorrente nei newsfeed dei social network. Lo stesso rapper qualche giorno fa ha condiviso la registrazione di una parte della seduta fatta con il suo terapeuta il giorno della scoperta della malattia. Lo ha fatto dopo averla superata, «perché l’essere umano tende a rimuovere, dimenticare. E io non voglio».
La condivisione ha attivato una polarizzazione fortissima tra sostenitori e detrattori. C'è chi ha salutato il gesto come un modo di avvicinare le persone alla psicoterapia e alla comunicazione di ciò che fa male. C'è chi ha gridato alla pornografia psicoterapeutica.
La verità è che, leggendo i social, ci si rende conto di come tantissime persone non famose siano alle prese con una malattia o una perdita. Considerata uno stigma in passato, da vivere di nascosto e con vergogna, oggi il dolore viene condiviso più apertamente, ricevendo conforto da fonti prima precluse. Se vogliamo, si tratta di un'evoluzione positiva dei social. Ma esporre "dati sensibili" sulla propria vita e sul proprio dolore può avere pro e contro, anche se non si è famosi. Abbiamo chiesto ad Andrea Sales, psicologo psicoterapeuta formatore e docente, come gestire in sicurezza il racconto del dolore.
Dottor Sales, partiamo da una premessa: è legale registrare una seduta dal proprio psicoterapeuta?
Sì, se il terapeuta lo autorizza. I miei pazienti mi chiedono di registrare l'incontro per poterlo riascoltare. Il rapporto di fiducia tra paziente e terapeuta disciplina l'uso dell'audio. In alcuni casi, si può anche scegliere di firmare un accordo che definisce la registrazione ad uso esclusivamente personale.
Perché sentiamo l'esigenza di condividere le nostre sofferenze sui social?
In realtà, non è un fenomeno che include tutti. Qualcuno sente l'esigenza di farlo, altri no. Alcuni possono sentirla come una forma di alleggerimento o di esorcizzazione. Per qualcun altro può essere un modo di sentirsi forte, mostrando le proprie vulnerabilità. Per altri può essere strumentale o pubblicitario. Si può anche scegliere di non condividere perché si sente l'argomento come personale e intimo. Ognuno di noi ha una posizione sul tema, il che non dovrebbe portarci a esprimere un giudizio assolutista. Per dire “Fedez ha sbagliato”, dovremmo conoscere lui, il ragionamento che ha fatto e se ha condiviso l'audio con una finalità strumentale.
C'è chi ha definito la condivisione di Fedez una normalizzazione della terapia: pensa che la scelta di pubblicare un audio di una seduta lo sia?
Ancora oggi chi va dallo psicoterapeuta viene considerato un pazzo o un malato. C'è ancora questa lettura retrograda. Fare psicoterapia è la cosa più strana, insensata, ma anche più naturale. Se ho un problema alla macchina, la porto dal meccanico. Se ho un problema ai pensieri – perché la psicoterapia fa questo, corregge i pensieri – la terapia non va bene. Il pensiero è una cosa intima, di cui ognuno dovrebbe essere responsabile. Sdoganare la psicoterapia significa questo: io non riesco a pensare bene. È una cosa difficile da dire. Ed è anche la ragione per cui tantissimi uomini non riescono ad andare in terapia, perché in una società maschilista si fatica a mostrarsi come vulnus, cioè come parte vulnerabile che chiede aiuto a qualcuno.
Esiste un modo per condividere il racconto del dolore in modo sicuro per la propria persona?
No. O hai una rete sociale che conosci bene, quindi con un livello di sicurezza alto, altrimenti dobbiamo ricordare che lì fuori c'è di tutto, dalla persona con tre lauree a quella con un analfabetismo disfunzionale altissimo. Sarebbe meglio scegliere di ragionare sui ragionamenti. In psicologia si chiama metacognizione. Fare questo sui social potrebbe far crescere una cultura del confronto.
Condividere pubblicamente questo aspetto della propria vita è utile per il proprio percorso terapeutico?
Sicuramente per Fedez è stato rilevante. Noi viviamo una vita normale, mentre Fedez vive una vita trasparente. Diventa inevitabile abituarti a rendere pubblica la propria vita. A quel punto si può arrivare a pensare che può essere più vantaggioso scegliere cosa condividere perché è esorcizzante e liberatorio.
Quali sono i pro e contro del racconto del dolore sui social?
Se guardiamo il fenomeno dal punto di vista di chi ascolta il racconto, tra i pro c'è la possibilità di identificarsi e trarne un insegnamento positivo. Per chi è timido, può suscitare l'intelligenza di dire “potrei farlo anche io”. Tra i contro, osservare le reazioni all'apertura può intimidire o spingere a etichettare quella persona come un cialtrone.
Mentre per chi lancia il messaggio?
Tra i pro, c'è la possibilità di alleggerirsi attraverso il racconto, pensando che la condivisione possa essere utile agli altri o a sé stessi. Fare qualcosa per gli altri dà un ritorno: è sempre un compromesso tra il soddisfacimento di un bisogno personale e il dare supporto agli altri.
Foto: LaPresse