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La pandemia e la scoperta dello smart working

La diffusione Coronavirus ha incentivato il lavoro agile, ovvero effettuato da remoto. Una modalità sconosciuta alla maggior parte dei dipendenti italiani, a differenza di quanto accade in altri Paesi.

La diffusione Coronavirus ha incentivato il lavoro agile, ovvero effettuato da remoto. Una modalità sconosciuta alla maggior parte dei dipendenti italiani, a differenza di quanto accade in altri Paesi.

Per l’ordinamento italiano lo Smart Working, o meglio ‘Lavoro Agile’ come recita la legge n.81 del 22 maggio 2017, è «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa». Una tipologia di impiego, soprattutto, in cui la prestazione viene eseguita «in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva».

Tante parole messe in fila in burocratese, per esprimere due semplici concetti: con lo smart working si può lavorare da casa e gli obiettivi contano più delle ore impiegate per raggiungerli.

Smartworking: per tanti è stata una scoperta

Sia chiaro: non tutti i lavori possono diventare agili. Un operaio non potrà mai passare allo smart working e, difatti, la maggior parte dei colletti blu ha continuato ad andare in fabbrica durante il lockdown imposto al Paese in epoca di pandemia. Chi, invece, aveva come luogo di lavoro una scrivania, fosse essa di un ufficio, di una redazione, di un’agenzia pubblicitaria, etc. si è invece potuto permettere il ‘lusso’ di passare al lavoro agile, con tutti i benefici per la sicurezza personale del caso.

Se per molti freelance lo smart working è una consuetudine, per tanti lavoratori dipendenti è stata invece una scoperta: sono in tanti a pensare che, una volta passato il virus, lo smart working incentivato proprio dal Covid-19 sia invece destinato a restare.

L'attenzione da parte del Governo al lavoro agile

Di sicuro, il Governo sta dimostrando una particolare attenzione allo smart working: il decreto-legge n. 18 del 2020 lo indica infatti come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-2019, concetto ribadito dalla direttiva n. 3/2020 del 4 maggio. E, sempre in questa Fase 2, lo smart working trova posto anche nel Decreto Rilancio, in base al quale i genitori lavoratori dipendenti del settore privato con figli fino ai 14 anni di età hanno «anche in assenza di accordi individuali» la possibilità di lavorare da casa, sempre «fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid».

Lavorare da casa

Foto gioiak2 © 123RF.com

Smart working: qual è la situazione in Europa?

Fino all’arrivo del Coronavirus, l’Italia figurava tra i Paesi dell’Unione Europea che meno utilizzavano lo smart working, praticato stabilmente da appena il 3,6% dei lavoratori dipendenti, a fronte di una media continentale del 5,2%. Esattamente come la Slovacchia, meglio di Ungheria, Grecia, Croazia e Bulgaria (staccatissima ultima con lo 0,3%), ma peggio di Repubblica Ceca (4%) Polonia (4,6%), Malta (5,8%).

A dominare la classifica i Paesi Bassi, con addirittura il 14%: qui dal 2016 è in vigore il Flexible Working Act che, sul modello inglese, sancisce e regolamenta il diritto dei lavoratori a richiedere forme di flessibilità negli orari e luoghi di lavoro. I Paesi Bassi sono seguiti da Finlandia (13,3%), Lussemburgo (11%) e Austria (10%). La Francia fa, o meglio faceva registrare un ‘onorevole’ 6,5%, la Germania un 5% e la Spagna un 4,3%, mentre nel Regno Unito finito fuori dall’UE (ma dove fu adottata la prima legge in tema, la Flexible Working Regulation del 2014) i ‘lavoratori agili’ rappresentano il 4,4% del totale.

>>Leggi anche: "Lo smart working ai tempi del Coronavirus: intervista a Mariano Corso"

Gli scenari futuri

Che le cose siano destinate a cambiare? Difficile dirlo: nel breve periodo (che sia breve, almeno è la speranza) le percentuali si impenneranno, ma c’è pur sempre da considerare il pregiudizio che da noi, più che altrove, affligge da sempre lo smart working: da casa si lavora peggio, perché aumentano le distrazioni.

Eppure basterebbe informarsi per sapere che è esattamente ii contrario: come confermato da più ricerche, la flessibilità dello smart working non solo aumenta la produttività dei lavoratori, ma favorisce anche il loro benessere (grazie a un ottimale bilanciamento vita-lavoro), con effetti particolarmente significativi per le donne. Che, è bene sottolinearlo, sono in leggera superiorità numerica nel computo degli smart worker d’Europa (5,5% contro il 5% degli uomini).

Nel frattempo, qualcosa si starebbe muovendo in Germania, dove ben presto lo smart working potrebbe diventare un diritto dei dipendenti: «Chiunque voglia e il cui lavoro lo consenta dovrebbe essere in grado di lavorare in un ufficio a casa, anche quando la pandemia sarà finita», ha annunciato il ministro del Lavoro Hubertis Heil. D'accordo con lui Verdi e Liberali, un po’ meno le associazioni datoriali. Tutto il mondo, forse, è davvero Paese. 

Foto apertura: iakovenko-123RF