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Pinkwashing: quando le lotte di genere diventano solo marketing

Campagne mirate comunicano un “impegno a termine” di brand che usano il colore rosa come un cavallo di Troia verso i nostri portafogli. Ma difendersi è possibile

Campagne mirate comunicano un “impegno a termine” di brand che usano il colore rosa come un cavallo di Troia verso i nostri portafogli. Ma difendersi è possibile

In principio c'era il greenwashing, ovvero quelle campagne concepite per "tingere di verde" prodotti e attività, armonizzandoli con il discorso collettivo sulla sostenibilità, sempre più centrale in tantissime attività umane. Negli ultimi anni, il marketing sembra aver scoperto una nuova vena creativa: la giustizia sociale. Siamo bombardati da campagne colorate, slogan inclusivi e inni all'arcobaleno, specialmente durante il Pride Month. Ma quanto di tutto questo è autentico? Ecco la questione al centro del concetto di "pinkwashing", un fenomeno che fa discutere.

Pinkwashing, il paradosso del rosa

La definizione di pinkwashing è stata utilizzata per la prima volta negli anni 2000 dalla Breast Cancer Action con il progetto "Think Before You Pink", a beneficio delle imprese che sostenevano economicamente la campagna. Nel 1991, Charlotte Haley iniziò a cucire fiocchi color pesca nel suo salotto, denunciando i pochi fondi governativi destinati alla lotta contro il cancro al seno. I fiocchi si diffusero rapidamente grazie al passaparola e attirarono l'interesse della casa cosmetica Estée Lauder e della rivista Self, che volevano acquistare i suoi fiocchi. Dopo il rifiuto di Charlotte, cambiarono il colore in rosa e lo usarono sui propri prodotti.

Ma il pinkwashing era solo l’inizio. Infatti, il mondo delle grandi marche ha sempre fame di stimoli che aiutino a vendere. Per questo, con l’ascesa del movimento LGBTQ+, le aziende si sono appropriate anche di simboli come la bandiera arcobaleno e i suoi colori, in modo superficiale, dando vita anche al rainbow washing. Dai giganti della moda a quelli del beverage, la tendenza ormai consolidata è quella di lanciare collezioni limited edition legate a eventi come il Pride. Ma, tristemente, spesso l'impegno si esaurisce con la fine degli eventi stessi.

In questo contesto il significato di pinkwashing si può riassumere nella scelta di utilizzare tematiche sociali come la parità di genere, i diritti civili e l’inclusione, come strumento di marketing senza un reale impegno, per ottenere un ritorno economico e d’immagine.

Quelle campagne "troppo rosa" per essere vere

Uno degli esempi di pinkwashing riguarda la nota catena di fast food KFC. Nel 2010, l'azienda annunciò una collaborazione con Komen, una rinomata associazione impegnata nella lotta contro il cancro al seno. Per l'occasione, i celebri secchielli del marchio furono colorati di rosa. Al termine della campagna, KFC raccolse 4 milioni di dollari da destinare alla causa.

Tuttavia, questi fondi erano stati già stanziati dall'azienda prima dell'inizio della campagna stessa. Di conseguenza, il ricavato delle vendite dei secchielli rosa non fu altro che un vantaggio per le finanze di KFC. Pur avendo realmente donato i 4 milioni di dollari, la campagna è stata percepita come un modo per ottenere visibilità e consensi, piuttosto che un autentico contributo alla causa.

La lotta contro il pinkwashing a Tel Aviv

Il pinkwashing rischia di svuotare le lotte di genere del loro significato più profondo, fornendo una visibilità apparente ma poco autentica. Le comunità LGBTQ+ vedono amplificarsi messaggi di sostegno che, sotto la superficie, non apportano cambiamenti reali. Ma l'illusione dell'autenticità ha allevato i suoi ribelli.

A Tel Aviv, la lotta contro il pinkwashing ha trovato nuova linfa nella sezione giovanile del partito comunista dentro Israele, Hadash. La sede del movimento si trova nella cosiddetta Left Bank, edificio a pochi passi dal Rothschild boulevard. Qui persone per lo più queer, israeliani e palestinesi che, soprattutto dopo i fatti del 7 ottobre 2023, ritrovano tra queste mura una parvenza di comunità. Come riporta il Manifesto, che ha intervistato l'attivista diciassettenne Ella, trans ebrea israeliana, «la lotta contro l’occupazione non può essere separata da quella per i diritti lgbtq+ e contro il pinkwashing che Israele porta avanti».

Secondo quanto pubblicato da alQaws, un’organizzazione che promuove la diversità sessuale e di genere nella società palestinese, il fenomeno è un modo per distrarre dalle operazioni di apartheid che Israele sostiene e per legittimare la violenza contro i palestinesi. Attivisti e organizzazioni si stanno mobilitando per esigere cambiamenti concreti nelle politiche pubbliche e un impegno autentico da parte delle istituzioni locali, dimostrando che l'uguaglianza non può essere solo un prodotto da vendere ai turisti. «La liberazione o è collettiva o non è liberazione», spiegava Ella.

Autenticità, responsabilità sociale e ruolo dei consumatori

Comprendere cosa vuol dire pinkwashing è il primo passo. Le aziende devono adottare strategie sostenibili e concrete, senza nascondersi dietro le campagne di marketing che esauriscono i loro messaggi in un cambio di manifesto negli spazi 6x3. È cruciale integrare pratiche inclusive nelle attività quotidiane e supportare i diritti delle minoranze in modo continuativo. L'autenticità deve essere più di un'etichetta usata per vendere.

Mai come oggi i consumatori hanno il potere di riscrivere le regole. Con scelte oculate, possono boicottare i marchi che praticano il pinkwashing, sostenendo quelle aziende che mostrano un reale impegno nell'ambito dell'inclusione e dei diritti civili. L’autenticità deve diventare il modello di riferimento per il progresso sociale, senza cadere nella tentazione di mercificare le lotte.

Foto di apertura: Freepik