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Lavorare 4 giorni alla settimana: utopia o rivoluzione possibile?

Silvia Dello Russo, Associate Dean for Research Luiss Business School, spiega le frontiere possibili e i cambiamenti necessari per aggiungere tempo di qualità al work-life balance

Silvia Dello Russo, Associate Dean for Research Luiss Business School, spiega le frontiere possibili e i cambiamenti necessari per aggiungere tempo di qualità al work-life balance

Negli ultimi anni la settimana lavorativa di quattro giorni è passata dall’idea utopistica a una possibile soluzione pragmatica per problemi concreti: burnout, turnover elevato, difficoltà a trattenere i talenti, e una domanda pressante di equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di vita. Trasformare 40 ore in quattro giorni senza far calare la produttività è possibile? E quali lezioni si possono trarre dall’esperienza internazionale per chi guarda al mercato del lavoro italiano? 

Lavorare 4 giorni alla settimana: vantaggi e criticità

Secondo Silvia Dello Russo, Associate Dean for Research Luiss Business School, per osservare vantaggi e criticità reali legati alla settimana lavorativa di 4 giorni è necessario contestualizzare il fenomeno, osservando fattori come i settori coinvolti, le attività aziendali, le posizioni ricoperte dai lavoratori interessati, oltre alla concreta applicazione di questa formula. Non farlo significa attestarsi su una posizione ideologica e polarizzante. 

«È chiaro che, almeno in teoria, si possono riscontrare delle criticità, legate alle specifiche attuazioni. Ad esempio, i dipendenti potrebbero percepire questa iniziativa come solo di facciata, se di fatto l’organizzazione del lavoro non viene alterata e costringe a lavorare sistematicamente oltre l’orario di lavoro; o se la “cultura organizzativa” premia gli stacanovisti o chi semplicemente è sempre disponibile o mostra di trattenersi in ufficio oltre l’orario di lavoro. Sono, queste, situazioni che si osservano spesso e il ricorso alla settimana corta potrebbe esacerbarle aggiungendo stress alle persone che già lavorano con un carico di lavoro troppo elevato». 

I Paesi che hanno adottato la settimana di 4 giorni

Ci sono diversi Paesi che hanno adottato la formula da 4 giorni della settimana lavorativa. 

L’Islanda è uno dei paesi che per primo ha testato la settimana di 4 giorni con progetti pilota condotti tra il 2015 e il 2019. Questi esperimenti hanno coinvolto circa l'1% della popolazione attiva. L'iniziativa ha interessato sia il settore pubblico che quello privato: i lavoratori sono passati dal lavorare per 40 ore a 35-36 ore settimanali, mantenendo lo stesso stipendio. I risultati sono stati molto interessanti: una maggiore produttività e qualità del lavoro, con una riduzione dello stress e del burnout. Inoltre, circa l'86% della forza lavoro islandese ha la possibilità di lavorare con orari flessibili o ridotti. 

In Spagna è stato lanciato un progetto pilota, che ha coinvolto circa 200 aziende, per lo più impegnate nel settore tecnologico e manifatturiero, che hanno portato l’orario lavorativo a 32 ore settimanali senza tagli salariali. 

Nel 2021, il governo giapponese ha proposto ufficialmente alle aziende di adottare una settimana lavorativa di 4 giorni per promuovere un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, riducendo il sovraccarico lavorativo e cercando di contrastare il fenomeno del karoshi, cioè "morte per troppo lavoro". Diverse aziende come la Microsoft Japan hanno testato con successo questo modello, riportando un aumento della produttività del 40% e un abbattimento dei costi operativi, dimostrando che il ritmo ridotto può funzionare anche in contesti più tradizionali.

In Nuova Zelanda la settimana lavorativa da 4 giorni è ormai una realtà. Una delle aziende simbolo di questo movimento è Perpetual Guardian, che nel 2018 ha introdotto questa misura, mantenendo lo stipendio invariato e portando le ore lavorative a 32 settimanali. I risultati hanno mostrato un aumento del benessere dei lavoratori, maggiore concentrazione e produttività. 

Il caso del Regno Unito

Uno degli studi più ampi condotti sul tema ha coinvolto 61 aziende nel Regno Unito che volontariamente hanno introdotto la settimana di 4 giorni per un periodo di 6 mesi. L'esperimento è stato condotto nel 2022, coinvolgendo più di 3.000 lavoratori.

«Va specificato che non hanno adottato tutte il medesimo modello - sottolinea Dello Russo - ma ciascuna ha identificato la formula più indicata alle proprie necessità e peculiarità. Tutte però hanno partecipato per il medesimo periodo di 6 mesi estendendo a tutta la popolazione organizzativa l’iniziativa. Lo studio ha mostrato un miglioramento, per i dipendenti, del bilanciamento lavoro-resto della vita e della soddisfazione lavorativa. Dal punto di vista organizzativo, indicatori importanti come il tasso di assenteismo e di turnover (lavoratori che lasciano volontariamente il posto di lavoro) si sono ridotti. Solo un terzo delle aziende ha fornito dati di produttività, ma su questo sotto-insieme di aziende i dati sono molto incoraggianti: non solo non si è riscontrata perdita di produttività, ma al contrario è stato osservato un piccolo incremento. I risultati sono stati talmente positivi che oltre il 90% delle imprese ha mantenuto la settimana di 4 giorni al termine dei 6 mesi di sperimentazione. Si è addirittura attivato un effetto a catena per cui altre aziende (clienti o partner di quelle coinvolte nello studio) le hanno emulate». 

Come ce la caveremmo in Italia?

Viene da chiedersi: la settimana lavorativa di 4 giorni è un modello applicabile in Italia? Secondo Dello Russo il risultato di questa scelta non dipende da elementi di cultura nazionale, ma dalla cultura manageriale e organizzativa. «Non trovo l’applicazione di un simile modello più difficile in Italia che altrove solo “perché siamo in Italia”. Tuttavia, vi può essere una sovrapposizione di elementi culturali, istituzionali e di tessuto economico che confonde e spinge ad attribuire alla cultura nazionale alcune criticità. È più probabile, invece, che la cultura manageriale necessaria al buon funzionamento della settimana di 4 giorni sia ancora meno diffusa in Italia (come in altri paesi del Sud Europa) per molteplici ragioni».

Per velocizzare l’adattamento culturale delle persone nelle aziende alla settimana lavorativa di 4 giorni si potrebbe cominciare a dibattere sulla base di evidenze scientifiche e di sperimentazioni serie come quella del Regno Unito, su cui ci sono dati scientifici. Lo abbiamo visto con lo smart working: in molti casi è stato criticato e poi abbandonato senza una solida base scientifica, ma basandosi solo su impressioni soggettive.

«Purtroppo, o per fortuna, la settimana corta condivide con lo smart working alcuni aspetti. Questo è già un primo elemento di conoscenza per preparare il terreno con ciò che serve ad una sua buona applicazione. Mi riferisco all’adozione di un modello di lavoro agile, ossia flessibilizzare il modo in cui il lavoro viene svolto all’interno di ciascun gruppo di lavoro. Il lavoro agile non è una pratica formalizzata, ma una decisione informale nell’ambito del gruppo che riguarda non solo i luoghi ma anche i tempi e le modalità del lavoro. Significa offrire ed avere chiarezza sugli obiettivi, le scadenze e i ruoli di ciascuno, condividendo il senso e il significato più generale di quello che si fa». 

Quattro giorni bastano per un miglior benessere psicofisico?

C’è un tema sempre più importante nel mondo del lavoro: il benessere psicofisico. Chi ha messo in atto la settimana lavorativa di 4 giorni ha osservato un miglioramento negli impiegati. Anche solo il parlarne indica un diverso approccio delle aziende al tema, collocando il benessere psicofisico dei lavoratori tra le priorità delle organizzazioni. «E, proprio perché ci sta a cuore il benessere delle persone, dobbiamo essere in grado di riconoscere che alcuni strumenti, seppure utili, non possono rispondere da soli al problema». 

«Il benessere è costituito di tanti aspetti - spiega Dello Russo - benessere fisico, psicologico, sociale e finanziario. La settimana di 4 giorni ha un effetto benefico su alcuni di questi aspetti in modo indiretto come, per esempio, il migliore bilanciamento lavoro-resto della vita. Questo significa che le persone riescono a gestire meglio richieste provenienti da altri ambiti della vita, come la cura di bambini o anziani, alleggerendo il carico emotivo e psicologico, ma anche offrendo l’opportunità di passare più tempo, e di qualità, con persone o care o semplicemente di socializzare o avere più tempo per fare attività fisica».

 «Per quanto riguarda altri aspetti del benessere, e specificamente la salute mentale, ci sono studi che mostrano che non c’è un numero ottimale di ore lavorate a settimana. Vale a dire che non ci sono differenze significative nella salute mentale delle persone occupate in un numero diverso di ore. L’unica vera differenza significativa è rispetto alla disoccupazione, che incide molto negativamente sulla salute mentale delle persone. Ma se non è la quantità a fare la differenza, lo è certamente la qualità del lavoro. Un buon disegno del lavoro (organizzazione, distribuzione dei carichi, capacità di assegnare attività significative e offrire uno scopo più ampio per cui si lavora) diventa fondamentale, insieme a un clima di relazioni fondato sulla fiducia, il rispetto e la valorizzazione delle persone».

«Queste cose, purtroppo non si ottengono automaticamente con la settimana corta e, anzi, sono il presupposto affinché la settimana di 4 giorni possa essere applicata con successo. Per questo motivo la settimana di 4 giorni è un contributo al benessere, ma non potrà essere risolutiva di per sé, proprio perché il benessere ha varie componenti ed è multi-determinato». 

Che lavoratori dovremmo essere per lavorare 4 giorni a settimana?

Poter lavorare 4 giorni a settimana sembra un sogno per tanti. Eppure, proprio per modificare la diffidenza culturale che ha spinto il management a stralciare in molti casi lo smart working dagli asset aziendali, viene da chiedersi se sono i lavoratori a dover cambiare, a dover dimostrare che il lavoro agile non è una "fregatura" per le aziende.

«Per i manager è necessaria la capacità di delegare: non si può rimanere ancorati ad un modello manageriale del tipo “comando e controllo” o ancora peggio di “micro-management”. Per i collaboratori, è necessaria l’accountability, la responsabilizzazione. E da entrambe le parti dovrà esserci una migliorata capacità di gestione del tempo e delle riunioni, in particolare. La tecnologia, per esempio, ci ha dato la possibilità di rimanere connessi e di fare riunioni con persone nei luoghi e tempi più disparati, ma il fatto di averne la possibilità non significa che se ne dovrebbero fare tante! Dalla pandemia in poi c’è stato un incremento nel numero di riunioni che non si giustifica con il carico di lavoro, e anzi lo rallenta perché il tempo speso in riunione è tempo sottratto all’operatività. Se si intende ridurre il numero di ore lavorative bisogna necessariamente renderle più efficienti». 

Foto di apertura: Lookstudio su Freepik