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Ritratto (senza fronzoli) di Kamala Harris

Un viaggio nella biografia di Kamala Harris, in attesa delle elezioni del 5 novembre che potrebbero consegnarle il ruolo di presidente degli Stati Uniti: sarebbe la prima donna nella storia.

Un viaggio nella biografia di Kamala Harris, in attesa delle elezioni del 5 novembre che potrebbero consegnarle il ruolo di presidente degli Stati Uniti: sarebbe la prima donna nella storia.

È stata la prima donna nera eletta come procuratrice distrettuale e poi come procuratrice generale della storia della California. Si definisce brat, una ragazzaccia, e si presenta agli eventi pubblici indossando le riconoscibilissime Converse Chuck Taylor All Stars. Dopo essere stata la prima donna nera vicepresidente degli Stati Uniti, ora punta ancora più in alto: alla Casa Bianca. Esatto, stiamo parlando di Kamala Harris. Anche se ormai abbiamo l’impressione di vederla in tutte le salse, un salto indietro nella sua biografia può riservare parecchie sorprese. 

Biografia e carriera professionale di Kamala Harris

Nata il 20 ottobre 1954 a Oakland, grande centro urbano della California, Kamala Harris è statunitense fino al midollo ma ha un nome che tradisce un’origine straniera. Per la precisione, indiana: in sanscrito kamala è il fiore di loto ed è uno degli epiteti della dea Lakṣmī. La madre, infatti, era un’oncologa immigrata in California dalla città indiana di Kennai; il padre, invece, è un professore di economia proveniente dalla Giamaica. Nel 1971 il divorzio dei genitori porta Harris a trasferirsi temporaneamente in Canada con la sorella Maya, per poi ritornare in patria per studiare. Si iscrive alla Howard University, un ateneo storicamente frequentato dalla comunità nera, per poi laurearsi in giurisprudenza alla University of California - Hastings

Per capire la sua carriera professionale bisogna fare una piccola digressione sul ruolo di procuratore distrettuale, perché il sistema giudiziario statunitense è molto diverso dal nostro. Il procuratore è il rappresentante del governo che, nei processi, sostiene la pubblica accusa. In parte dunque è un ruolo sovrapponibile al nostro pubblico ministero, ma negli Usa può essere nominato dall’autorità politica o eletto direttamente dai cittadini, come nel caso della California. È proprio questa la carriera scelta da Harris che inizia come viceprocuratrice distrettuale a Oakland, poi diventa procuratrice distrettuale a San Francisco e, nel 2011, procuratrice generale della California.

La carriera politica per il Partito democratico

Nel 2016, durante le elezioni che vedono trionfare Donald Trump, Kamala Harris concorre per un seggio in Senato per le fila del Partito democratico. E lo ottiene. Durante i suoi quattro anni di mandato si scaglia duramente contro la stretta all’immigrazione voluta da Trump, esprime sostegno incondizionato a Israele, interroga il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg sullo scandalo Cambridge Analytica e la segretaria alla Sicurezza interna Kirstjen Nielsen sull’atroce scelta di separare i bambini immigrati dal Messico dai loro genitori, vota a favore dell’impeachment di Donald Trump.

Quando si avvicina la nuova tornata elettorale, si candida alle primarie del Partito democratico. Ha un profilo tutt’altro che banale: attiva per i diritti civili e delle minoranze etniche, ma al tempo stesso espressione di un sistema giudiziario che in più occasioni – e non senza ragioni – è stato accusato di penalizzare le persone nere. Resta negli annali il suo scontro con Joe Biden sul cosiddetto bussing, la pratica di trasportare gli studenti in autobus da un quartiere all’altro per evitare che si crei una ghettizzazione tra quartieri e scuole a seconda del colore della pelle. Ma, alla fine, è Joe Biden ad avere la meglio e a vincere prima le primarie democratiche e poi le elezioni presidenziali.

Kamala Harris è la sua vicepresidente. Un ruolo che non è mai facile, perché il vicepresidente è quello che si fa carico anche di questioni impopolari. Nel suo caso, una delle più delicate e controverse è stata la gestione della crisi migratoria al confine, uno di quei temi su cui l’opinione pubblica si spacca a metà. Più chiare, dirette e apprezzate (almeno dalle fasce più progressiste della popolazione) le sue battaglie per i diritti civili e il diritto all’aborto.

La vita privata di Kamala Harris

Che ci sia curiosità nei confronti della vita privata di Kamala Harris è tutto sommato comprensibile, perché negli Stati Uniti la famiglia del presidente in carica ha un ruolo pubblico. Anzi, più che la famiglia, sarebbe corretto dire la first lady; un ruolo che finora è stato sempre e solo al femminile, visto che i 46 presidenti che si sono susseguiti erano tutti uomini eterosessuali.

Il ruolo della first lady è informale e non istituzionalizzato, spiega il giornalista Francesco Costa in un video sull’argomento, “però ha una grande centralità e un grande peso nella comunicazione di ogni Casa Bianca e nel modo in cui ogni presidente decide di presentarsi alla popolazione raccontando sé stesso e i suoi valori”. 

Nel caso di Kamala Harris, l’aspirante first gentleman si chiama Douglas Emhoff, è nato a New York il 20 ottobre 1964 (alle appassionate di astrologia salterà all’occhio questa coppia di Bilancia) ed è di religione ebraica. Anche lui viene da studi giuridici e ha lavorato a lungo come avvocato, specializzandosi in diritto dello spettacolo e della proprietà intellettuale. È diventato partner del grande studio legale DLA Piper, salvo poi mettere da parte la propria carriera per sostenere la candidatura (e poi il mandato) della moglie come vicepresidente. 

Prima di lei, Douglas Emhoff era stato sposato per 16 anni con la produttrice di Hollywood Kerstin Mackin. Archiviato il divorzio, a un appuntamento al buio ha conosciuto Kamala Harris ed è scattata la scintilla: il 22 agosto 2014 la sorella di Harris, Maya, ha officiato le nozze al Palazzo di giustizia di Santa Barbara, con un inedito mix di ritualità indiana ed ebraica. Molti si chiedono se Kamala Harris ha figli: non ne ha avuti, ma ha di fatto cresciuto i figli del marito, Cole (classe 1994) ed Ella (classe 1999), che affettuosamente la chiamano “Mamala”. 

La campagna di Kamala Harris come candidata alla presidenza Usa

La campagna elettorale di Kamala Harris per le attesissime presidenziali del 2024 è stata tutto fuorché noiosa. In origine, come ben sappiamo, il presidente in carica Joe Biden aveva deciso di correre per un secondo mandato. Incassando il pieno sostegno del Partito democratico, senza nemmeno alcun dibattito ufficiale con gli altri potenziali candidati, e trionfando alle primarie del partito (se ti torna utile un breve ripasso di politica americana, lo trovi su Sapere.it).

Ma il primo, disastroso dibattito con il suo sfidante alla Casa Bianca, Donald Trump, ha scoperchiato il vaso di Pandora: le condizioni di salute di Biden, legate alla sua età avanzata, non sono più compatibili con un incarico di questo calibro. Dopo qualche tentennamento, e – cosa non secondaria – il blocco dei fondi da parte di importanti donatori del Partito democratico, il 21 luglio Biden ha annunciato il suo ritiro.  

Il fatto che fosse Harris a sostituirlo è apparso da subito naturale, tant’è che i delegati del partito l’hanno subito sostenuta in massa e senza esitazioni. La nuova candidata ha scelto come suo vice Tim Waltz, un profilo che – come da consuetudine – le fa da contrappeso: è un uomo bianco, viene dal Minnesota (uno stato interno, a differenza della California dove è nata Harris), ha idee progressiste ma tutto sommato moderate. I due sono arrivati alla convention nazionale democratica di agosto forti di un grandissimo entusiasmo e di un forte battage mediatico al quale Donald Trump non riusciva a contrapporre messaggi altrettanto ficcanti. Chiaramente, nulla è ancora scritto: mentre pubblichiamo questo articolo, Harris e Trump sono vicinissimi nei sondaggi e sbilanciarsi sarebbe un vero azzardo. Appuntamento (con la storia, è proprio il caso di dirlo) al 5 novembre! 

Foto in apertura: Gage Skidmore/Wikimedia Commons