Una torta che se leggi gli ingredienti ti viene un po’ di nausea, ma alla quale (una volta assaggiata) non potrai più rinunciare. Parola di Sofia.
Una torta che se leggi gli ingredienti ti viene un po’ di nausea, ma alla quale (una volta assaggiata) non potrai più rinunciare. Parola di Sofia.Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.
Così scriveva Cesare Pavese ne La luna e i falò, ora senza farvi nessuno spiegone che manco lo so fare, vi dico come sempre quello che ho capito io ai tempi del liceo, quelle poche volte che la professoressa di italiano aveva il piacere di vedermi, quasi sempre un dispiacere in verità.
Il paese di Anguilla, protagonista del romanzo - ricordatevi di non far scegliere a Cesare il nome del vostro futuro figlio -, si trovava nelle Langhe e lui, emigrato in America, ci fa ritorno con quell’aria romantichella che gli fa dire chissà che cosa mi aspetta, chissà che radici che vado a ritrovare, chissà l’amico mio Nuto se ancora se ricorda come si gioca a tressette. Infatti il povero Cesare continua così: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti’’. (Spoiler: NO) E invece non è vero, alla fine je sale un’ansia che la metà bastava, e a un certo punto sono sicura che dentro di sé si sia detto “ma tutta la vita Mac and Cheese rispetto alla Bagna Cauda’’, però si sa, gli editor non te lo fanno scrivere nel libro, mai sia che subito dopo i fascisti, a Pavese gli si presentava alla porta la mafia dell’aglio.
Comunque la mia vita non è affascinante come quella di Cesare, ma questo è l’articolo mio, quindi chi si può lamentare? Nessuno, perciò vi racconto questa cosa lo stesso.
Il mio percorso è stato inverso rispetto a quello di Pavese, da Roma, Caput Mundi and Universe, me ne sono andata in un paese della Brianza, non ne potevo più di Roma, mi schiacciava l’anima e non vivevo bene, e avevo i miei fascisti interiori che mi perseguitavano. Tuttavia, dopo poco, ho iniziato a sviluppare una certa idea romantica della mia città, tipo niente buche, niente traffico, niente topi in giro, facilità negli spostamenti, piangevo al suono della voce delle mie amiche con cui litigavo ogni momento possibile quando vivevo a Roma, insomma mi stavo a fa un film bello preciso.
Parafrasando una nota frase sui paesi, puoi far uscire la persona da Roma, ma non Roma dalla persona, quindi iniziavo a tornare a casa mia molto più spesso, fino a quado ho perso il motivo per cui mi ero trasferita in Brianza e, un giorno, presa da un moto di follia più forte degli altri che mi vengono ogni giorno, ho impacchettato quasi tutto e me ne sono tornata a Roma ma, indovinate? Sono stata bene per poco tempo, da subito in realtà mi sono sentita ugualmente scomoda come mi sentivo in Brianza, sono ricomparse le buche, le mie amiche le vedevo più bruttine, la città mi risultava pesante e asfissiante.
Che assurdi che siamo quando pensiamo che ci sia un luogo che possa definire il nostro benessere, senza coltivarlo in alcun modo internamente.
Non sono diventata Ghandi, voglio solo dire che bisogna fare sempre molta attenzione all’idealizzazione del benessere come qualcosa che dipende da fattori esterni/ambientali, da una condizione materiale, e che un posto è solo un posto e sentirsi fuori contesto è una condizione personale, mai geografica, soprattutto perché si corre il rischio di ingannarsi e di rimandare nel tempo la cura del proprio benessere.
Una cosa mi è rimasta bene dentro dalla mia esperienza in un paese, Seregno nello specifico: la torta paesana, una torta che se leggi gli ingredienti ti viene un po’ di nausea, ma quando la mangi non ti capaciti di come tu possa vivere senza, nonostante ci sia dentro l’uvetta.
Ognuno intende in modo diverso questa torta, che è la riconferma che la percezione del luogo è sempre varia e personale, ma il fattore comune a tutti è il pane raffermo.
Quindi partiamo da qui, cosa ci serve per una teglia da 26 cm di diametro: