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Da Google a McDonal's: #MeToo, le donne protestano contro le molestie

Non solo Hollywood: anche Facebook, Google e McDonald's sono finite al centro della polemica e delle rimostranze dei dipendenti vittime di molestie sessuali.

Non solo Hollywood: anche Facebook, Google e McDonald's sono finite al centro della polemica e delle rimostranze dei dipendenti vittime di molestie sessuali.

Lanciato da Alyssa Milano nel 2017, il movimento #MeToo è diventato un simbolo della lotta delle donne contro le molestie sessuali subite nel mondo del cinema. Un nome su tutti tra gli accusatori, quello di Harvey Weinstein.

Ma nel corso dei mesi è emerso che questo fenomeno, questa violenza psicologica e fisica, non riguarda solo il mondo del cinema.

Ne è una prova l'ondata di proteste che sta animando i dipendenti di multinazionali del calibro di Google, Facebook e McDonald's. A volte non è nemmeno il sesso a preoccupare, ma la negazione di diritti fondamentali come quello di occuparsi della propria famiglia.

Ecco com'è cambiato il movimento #MeToo.

#Metoo a Google

Il 1° novembre 2018 i dipendenti Google di venti uffici collocati in tre diversi continenti, hanno lasciato le loro postazioni di lavoro alle 11 (coordinandosi tramite fuso orario) e sono scesi in strada protestando contro le politiche dell'azienda circa le molestie sessuali. L'hashtag usato oltre #MeToo, è stato #GoogleWalkout.

Foto: maglara© 123RF.com

Tutto è iniziato alla fine di ottobre, quando a ridosso della pubblicazione dei risultati finanziari e in risposta a un'inchiesta del New York Times, Sundar Pichai - Ceo di Google - ha confessato che le persone allontanate dall'azienda a causa di comportamenti non consoni sono state 48. Tra questi c'era anche Andy Rubin, creatore di Android, che ha ricevuto una buonuscita di 90 milioni di dollari e con cui l'azienda continua comunque a collaborare.

I dipendenti protestano proprio per questo: Google non farebbe nulla di davvero incisivo per scoraggiare le molestie sessuali.

Degli 80mila dipendenti del gruppo il 70% sono maschi; se si restringe il censimento alle posizioni di medio-alto livello, la percentuale di uomini sale al 75%. Oltre Rubin, altri due funzionari di alto livello sono stati allontanati con buonuscite milionarie, ma senza che i nomi né le ragioni del licenziamento fossero rese note. È contro questa tolleranza che i dipendenti di Google in tutto il mondo protestano, oltre che contro i danni prodotti dal comportamento dei più ricchi e potenti.

#MeToo a McDonald's

Due mesi prima anche i dipendenti di McDonald's erano scesi in strada per dire #MeToo. Da Los Angeles a New Orleans, le donne che ogni giorno vestono la divisa della nota catena di fast food hanno protestato, dicendo: "Non sono nel menu". Lo sciopero era arrivato dopo ben 25 denunce arrivate alla Commissione per le pari opportunità (EEOC) degli Stati Uniti, completamente ignorate dai vertici di McDonald’s.

Foto:  TEA © 123RF.com

"Palpeggiamenti. Commenti volgari. Proposte di sesso. E quando le lavoratrici hanno denunciato I comportamenti inappropriati, la direzione non ha detto nulla – o, ancora peggio, le ha licenziate e si è vendicato". Le dipendenti hanno documentato ciò che ogni giorno devono sopportare, insieme alla cosa più pesante: il silenzio e le reazioni dell'azienda. "È tempo di applicare le regole dell’azienda che proibiscono le molestie sessuali", si legge ancora.

Le dipendenti di McDonald's hanno avanzato tre richieste:

  • l'applicazione delle linee guida aziendali contro le molestie e il loro rafforzamento;
  • un sistema di educazione e formazione sulle molestie, insieme alla creazione di uno spazio di denuncia;
  • l'istituzione di commissioni miste tra lavoratori, responsabili di negozio, corporate e associazioni in difesa dei diritti delle donne, per non lasciare nessuna donna sola a confrontarsi con l'amministrazione in caso di problemi e violenze.

#MeToo a Facebook

Ma il #MeToo nelle multinazionali non nasce solo in seguito ai palpeggiamenti o alle molestie verbali. All'interno di Facebook Eliza Khuner ha sollevato un velo sulle reali condizioni delle mamme nell'azienda. La donna era una data analyst dell'azienda: dopo la nascita del terzo figlio, è stata costretta a lasciare l'azienda. In un toccante post su un forum riservato ai dipendenti di tutto il mondo, ha raccontato la sua esperienza e la dura realtà con cui si è scontrata.

Aveva chiesto di lavorare da casa, magari part-time, con una maggiore elasticità per recuperare le ore perse. Ma dalle risorse umane le risposte sono state sempre negative. Strano per un'aziende creata da un uomo che, alla nascita delle sue figlie avute con la moglie Priscilla Chan, ha dedicato parole commoventi su un roseo futuro da creare con e per loro.

Foto:  ximagination© 123RF.com

La risposta di Facebook pare sia arrivata con un intervento di Sheryl Sandberg, manager da sempre in prima linea per l'autoaffermazione delle donne nelle grandi aziende. La direttrice operativa del gigante di Menlo Park ha detto che il management intende muoversi in quella direzione in futuro ma al momento non può. Perché consentire a tutti i genitori di lavorare part-time inciderebbe sul morale del resto del team, ha detto. Una risposta deludente per chi ha bisogno ora di quelle ore e di quelle tutele.

Stessa risposta ripetuta anche da Mark Zuckerberg, affrontato da Khuner durante il meeting settimanale riservato allo staff di Facebook. Il Ceo ha ripetuto le stesse parole di Sandberg. In Facebook tutti i neopapà e le neomamme hanno quattro mesi di congedo e quattromila dollari cash per ogni bambino, il rimborso parziale delle spese per l’infanzia e ospitali sale di allattamento in ogni edificio. Khuner chiama in causa l'Europa, dove la maternità è obbligatoria: è a questo modello che le aziende come Facebook dovrebbero ispirarsi.

Foto:  unitysphere© 123RF.com