Ada Moznich ci ha raccontato la sua storia: dalla disperazione della diagnosi alle tante conseguenti difficoltà, persino in ospedale, dove alcuni medici si sono rifiutati di operarla. E poi l'amore della famiglia, un matrimonio felice e l'abitudine a una malattia cronica, dura, ma con la quale - ha sottolineato - si può imparare a convivere.
Ada Moznich ci ha raccontato la sua storia: dalla disperazione della diagnosi alle tante conseguenti difficoltà, persino in ospedale, dove alcuni medici si sono rifiutati di operarla. E poi l'amore della famiglia, un matrimonio felice e l'abitudine a una malattia cronica, dura, ma con la quale - ha sottolineato - si può imparare a convivere.AIDS. Quattro semplici lettere che, dall’individuazione della malattia nel 1981, sono state capaci di terrorizzare il mondo interno per (almeno) due decenni. Se lo conosci lo eviti, diceva una famosissima pubblicità progresso. Se lo conoscessimo bene, eviteremmo innanzitutto di usarlo come sinonimo di un altro acronimo, HIV. C’è una correlazione, ovviamente, ma è pur sempre necessaria una distinzione: l’Aids è la conseguenza tardiva dell’Hiv, virus che distrugge le cellule del sangue indispensabili per il corretto funzionamento del sistema immunitario. Ma oggi, assumendo farmaci antiretrovirali, è possibile vivere una vita intera da sieropositivi, senza mai ammalarsi di Aids.
In occasione del World Aids Day, che ricorre il 1° dicembre, DeAbyDay ha incontrato Ada Moznich, del Consiglio direttivo di NPS Italia, onlus fondata da persone sieropositive e attiva dal 2004 nel campo della prevenzione, sensibilizzazione, informazione e supporto psico-sociale per le problematiche legate all’Hiv-Aids: «Ho ricevuto la diagnosi di Hiv nel 1993, a 29 anni. Nel 1996 sono andata in Aids perché avevo sviluppato patologie correlate». Ecco la sua storia.
In che occasione è arrivata la diagnosi?
Ero stata ricoverata in ospedale a causa di una polmonite che, come mi spiegarono i medici, era correlata all’Hiv, infezione asintomatica che viene fuori solo quando il virus ha fatto molti danni al sistema immunitario. Mi dissero che, in base alle mie condizioni, dovevo aver contratto il virus nella prima metà degli anni '80.
Hai capito subito il motivo del contagio?
Sì, ma preferisco non dirlo: è importante che io abbia preso il virus, non il modo in cui è successo. Il contagio non è legato a una categoria ma, semplicemente, a comportamenti a rischio che una persona può aver avuto anche solo una volta. Non vogliamo che l’Aids venga collegato a delle categorie, come succedeva negli anni '80 e '90: tossicodipendenti, omosessuali e prostitute.
Cosa hai pensato quando hai saputo di essere sieropositiva?
All’epoca l’Hiv era una condanna a morte. Sono andata in depressione e disperazione totale. Poi mi sono detta: «Cerca di vivere questi due o tre anni che ti rimangono nel miglior modo possibile». Per fortuna, poco tempo dopo sono arrivate le cure.
La famiglia e gli amici come hanno reagito?
Non era facile dirlo all’epoca, ma con mio stupore questa cosa è stata accettata da famiglia e amici. Certo, ho perso qualche amico, ma diciamo che è stata l’occasione per fare un po’ ‘pulizia’. Quelli veri mi sono rimasti tutti accanto.
All’epoca hai avuto la percezione che, tra i ‘meno amici’, qualcuno avesse proprio paura di toccarti?
Sì, ma si potevano contare sulle dita di una mano. Te lo dico con molta tristezza. Queste persone, poi, si sono definitivamente allontanate da me.
In generale possiamo però dire che sei stata molto fortunata.
Sì, perché nel corso degli anni ho conosciuto ragazzi che sono stati allontanati da casa, rifiutati dalle loro stesse famiglie a causa della sieropositività. E che non sono morte in completa solitudine solo perché hanno vissuto i loro ultimi giorni in un hospice per l'assistenza ai malati di Aids in fase terminale.
La sieropositività come ha influito sulla tua vita sentimentale?
Anche in questo caso sono stata molto fortunata, perché nello stesso periodo in cui mi hanno diagnosticato l’Hiv ho conosciuto un ragazzo, che quando lo ha saputo non è scappato. Anzi, per lui è stata una sfida: non voleva essere uno di quei benpensanti che allontanano chi ha questa malattia. Abbiamo iniziato una storia, siamo andati a convivere, ci siamo sposati, abbiamo comprato casa e siamo ancora insieme. Mio marito, che è sieronegativo, è una persona meravigliosa che mi è stata accanto quando stavo molto male. Probabilmente è anche grazie a lui che sono riuscita a resistere all’avvio dei farmaci: il suo amore mi ha dato la forza di stringere i denti.
Avete avuto figli?
Purtroppo no, anche se avremmo voluto. Colpa della menopausa precoce, comunque, non della sieropositività: in tal senso, ormai oggi non c’è più nessun problema, esistono protocolli per donne in gravidanza e se il bambino viene seguito adeguatamente nasce poi sano. Addirittura con parto naturale e non cesareo. Possiamo dire che in Italia non ci sono più neonati sieropositivi.
Quando conosci una nuova persona, riesci a parlare tranquillamente della tua malattia?
Non è che mi presenti dicendo: «Piacere, mi chiamo Ada e sono sieropositiva» (ride, ndr), però se il discorso vira su questo tema lo dico senza problemi, di essere sieropositiva, attivista e segretaria di un’associazione che si batte per i diritti, appunto, delle persone sieropositive.
Hai mai vissuto episodi di discriminazione?
Ho avuto problemi in ospedale. In occasione di interventi chirurgici non è scontato trovare chirurghi disposti ad operare un paziente sieropositivo. Mi è successo una volta con un’ernia epigastrica, per fortuna due giovani dottori si sono resi disponibili, quando invece il primario non voleva facessi l’intervento. Un’altra volta ho litigato con un dentista…
Sempre in ambito sanitario, insomma.
Il fatto è che altrove puoi tenere segreta questa cosa, mentre in ospedale la devi dire o, comunque, viene fuori quando devi fare un’operazione chirurgica. Non è casuale che sia proprio questo l’ambiente in cui subiamo più discriminazioni.
Sul lavoro le persone sieropositive sono discriminate?
Come associazione abbiamo assistito persone che sono state licenziate con le scuse più varie. Non solo con la ‘classica’ riduzione del personale. È successo di aziende che hanno chiuso un comparto solo per far fuori un lavoratore sieropositivo. Da questo punto di vista, io non ho avuto problemi.
La famosa Pubblicità Progresso del 1990, quella con l’alone viola per intenderci, quanto ha influito sulla demonizzazione dell’Aids?
Tantissimo, perché ha messo un marchio ai sieropositivi. A livello comunicativo era una campagna perfetta, solo che le persone l’hanno registrata in modo sbagliato. L’iniezione, l’uomo che tradisce la moglie… è passata, insomma, l’idea che l’Aids fosse un castigo per comportamenti immorali.
Foto: PENCHAN PUMILA © 123RF.COM
A tal proposito, è innegabile che l’Aids abbia influito negativamente sulla percezione dell’omosessualità. E viceversa.
Esatto. Per la serie ‘Fai cose contronatura e il Signore ti ha castigato con l’Hiv’. E invece non è così. Sono infatti proprio i cosiddetti ‘normali’, gli eterosessuali per intenderci, le persone più a rischio: non stanno attenti, non fanno il test e si accorgono tardi di essere sieropositivi, quando ormai hanno già trasmesso il virus. In buona fede, ovviamente.
Consigli appunto ogni tanto di fare il test?
È una cosa che diciamo ai medici: quando chiedete un emocromo ai pazienti, fate fare anche il test dell’Hiv. Giusto per dare una controllata. «Ho avuto due rapporti sessuali nella mia vita. E uno di essi mi ha contagiata», mi ha detto una volta una ragazza di 22 anni che ho incontrato in ospedale.
Ho letto che c’è stato un ritorno dell’eroina. I casi di infezione sono stabili o in aumento?
L’eroina adesso viene fumata più che iniettata in vena. In generale, i tossicodipendenti non raggiungono nemmeno il 10% dei nuovi contagiati. Come ti ho detto, il grosso delle infezioni deriva da rapporti sessuali non protetti. I numeri sono stazionari: è da 15 anni che abbiamo da 3.500 a 4 mila nuovi casi annui. È davvero triste che non ci sia ancora un calo significativo.
Nel 1993 l’Aids era una condanna a morte. Oggi che cos’è?
Oggi è una malattia cronica che ti condiziona la vita, perché devi prendere farmaci tutti i giorni e fare test ogni anno. È una malattia come il diabete, che prevede una routine fatta appunto di medicine e controlli. Diventa un’abitudine, ma è dura. C’è chi si lamenta perché per dieci giorni deve assumere antibiotici, ma io prendo pasticche da 20 anni: che dovrei dire?
Cosa possiamo e dobbiamo dire alle persone a cui, oggi, viene diagnosticato l’Hiv?
Dobbiamo normalizzare questa patologia. Dobbiamo dire loro di non aver paura, perché possono avere una vita serena. Anche dal punto di vista sessuale: negli anni bui i sieropositivi evitavano di avere relazioni con partner sieronegativi, per proteggerli, mentre oggi grazie alle terapie che azzerano la carica virale, una persona sieropositiva non è più pericolosa per gli altri.
Foto apertura: nito500 © 123RF.COM