Il tabù attorno al dolore e alla malattia mentale è ancora forte. Tuttavia, c’è chi cerca di sfondare il muro dell’indifferenza manifestando il proprio disagio e sofferenza via social. Ma far vedere attacchi di panico e crisi di pianto è davvero una soluzione? Lo abbiamo chiesto al dottor Gianmarco Manfrida
Il tabù attorno al dolore e alla malattia mentale è ancora forte. Tuttavia, c’è chi cerca di sfondare il muro dell’indifferenza manifestando il proprio disagio e sofferenza via social. Ma far vedere attacchi di panico e crisi di pianto è davvero una soluzione? Lo abbiamo chiesto al dottor Gianmarco ManfridaEsibire il dolore sui social potrebbe essere definito uno dei trend dello storytelling contemporaneo. Le star che hanno sposato questa pratica sono moltissime. Tra i casi più famosi, ricordiamo le lacrime di Fedez durante il racconto della sua malattia, ma anche quelle di Benedetta Rossi in crisi per gli attacchi ricevuti proprio dai suoi hater. Tuttavia, si parla di personaggi famosi. Persone di cui ogni singolo post o storia è controllata da un team di esperti capaci di calibrare al meglio anche i riflessi delle lacrime. Ma cosa accade quando adolescenti e adulti normali, persone famose solo nella propria cerchia di amici, scelgono di condividere la propria sofferenza attraverso un post o un video? C’è chi urla all’esibizionismo. C’è chi inneggia alla condivisione positiva.
Il tabù attorno al dolore e alla malattia mentale è ancora forte. Video che “sfondano” il muro dell’indifferenza fanno molto più di tante campagne del Ministero della salute. Ma esibire il dolore sui social fa bene oppure no? Lo abbiamo chiesto al dottor Gianmarco Manfrida, psichiatra, psicologo e psicoterapeuta, co-autore del volume “La clinica e il web” (FrancoAngeli).
Dottor Manfrida, cosa comporta esibire il dolore sui social?
Shakespeare diceva: “Date parole al dolore”. Di fatti, tenere tutto dentro porta a scoppiare. Tuttavia, condividere è sempre più sinonimo di esibire. Se scrivo qualcosa a proposito di un lutto sul mio social network, metto in condivisione un sentimento con persone conosciute o familiari, per cui quello che dico rappresenta qualcosa. Mettere in comune la propria sofferenza con altre persone che possono aver vissuto la stessa esperienza può aiutare. Se invece è un modo egocentrico per distinguersi dagli altri, sto utilizzando la sofferenza – vera o presunta – per costruire un’immagine pubblica. I social consentono di avere delle conferme dagli altri, che è ciò su cui si basa la nostra vita anche prima dei social. Questi mezzi hanno solo moltiplicato l’esigenza, rendendo l’approvazione degli altri superficiale.
Cosa significa?
Secondo me una condivisione con persone che si conoscono o che condividono la stessa esperienza, è utile. Un’esposizione diretta, con il fuoco dei riflettori concentrati su sé stessi, con l’intenzione che tutti confermino la disgrazia, incentiva aspetti esibizionistici.
Com'è cambiata nel tempo la condivisione emotiva?
Il moltiplicarsi della connessione ha cambiato le modalità di condivisione. In passato, si parlava di sei gradi di separazione. Oggi Facebook ha portato questa distanza a tre passaggi. In sole tre mosse posso essere in contatto con chiunque. Un contatto così rapido e facile crea un’enorme quantità di pubblico, che riceve contatti pur essendo meno significativi, generici. È faticoso coinvolgere le persone online. È facile: puoi farlo da qualsiasi parte e da qualsiasi momento, ma riduce l’impegno richiesto dall’essere in presenza.
Può farci un esempio?
Se si chiede a un fobico di fare una seduta online, lui darà subito la sua disponibilità perché avrà un minor coinvolgimento. Avere molti follower e molti like sono una conferma quantitativa del proprio valore, ma riduce l’importanza data dalla persona.
C’è differenza tra l’offrire una testimonianza di un problema rispetto all’esibirlo?
La tecnologia non è né buona né cattiva, dipende dall’uso che ne viene fatto. La condivisione di informazioni può essere utile. Se si condivide il racconto di un attacco di panico, descrivendo le sensazioni vissute, mostrando di averlo superato, si aiutano altri ad affrontare il problema. Se si esibisce l’attacco di panico, ci può essere un desiderio di protagonismo perché quando si ha un attacco di panico, ciò che si vuole è il pronto soccorso. Al massimo si può chiamare qualcuno di cui ci si fida.
Quali sono i rischi di rendersi protagonisti visibili di questa condivisione?
Si può trovare chi ci dà del fifone, chi dice “ma quanta importanza ti dai” o “mi sembra che tu sia ancora vivo”. Ma la ricerca del confronto con gli altri è il rischio più grande. Si possono scatenare effetti competitivi e simmetrici. Ad esempio, gli adolescenti che ascoltano racconti di coetanei che hanno disturbi alimentari o praticano l’autolesionismo, può generare un bisogno di emulazione. La ricerca dell’esibizione di un proprio problema alza la posta.
Quali sono invece i vantaggi, se ci sono, della condivisione social?
Intanto, attraverso le app di messaggistica istantanea si ha la possibilità di raggiungere il proprio terapeuta rapidamente. Le sedute non finiscono più nello spazio designato, si dilatano: la vita reale entra in terapia e viceversa. Noi professionisti usiamo spesso i messaggi con i pazienti in difficoltà. Un gruppo ben costituito e ben gestito, che qualche volta ha occasioni di riunioni in presenza è un buon riferimento, come accade per gli alcolisti anonimi. Si crea una comunità che sostiene, ed è a questa realtà che bisogna rivolgersi e non al mondo indistinto. Ci vuole una persona, alcune persone o un gruppo con le stesse esperienze per praticare una vera condivisione.