Il docu SanPa racconta luci e molte ombre della comunità riminese, lasciando in disparte la questione femminile. Una testimone, ospite per molti anni, ci ha raccontato i metodi misogini di Vincenzo Muccioli.
Il docu SanPa racconta luci e molte ombre della comunità riminese, lasciando in disparte la questione femminile. Una testimone, ospite per molti anni, ci ha raccontato i metodi misogini di Vincenzo Muccioli.Dall’inizio del nuovo anno, pandemia e campagna vaccinale a parte, sui giornali non si parta d’altro. La serie di Netflix SanPa, opera prima della Produzione 42 di Gianluca Neri ha avuto un enorme successo e oltre a raccontare grazie all’intervento di numerosi testimoni, luci e ombre (più che altro ombre) della comunità di recupero per tossicodipendenti più grande d’Europa, spinge costantemente lo spettatore a interrogarsi su questioni gigantesche e complesse, dai fragilissimi confini. Quanto si può giustificare il male nel nome del bene? Dove finisce la libertà individuale in nome del bene? Se la causa è nobile tutto è permesso?
La docu serie SanPa racconta i metodi che Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità diventato a un certo punto degli Anni ‘80 l’uomo più famoso d’Italia, usava e faceva usare a delegati per evitare che ragazzi e ragazze ricadessero nella tossicodipendenza: c’erano punizioni corporali durissime, umiliazioni pubbliche davanti ai 3000 ospiti, le chiusure per settimane in stanzini angusti in catene o in gabbie, le docce gelide. Punizioni che non avvenivano solo se si tentava di scappare. Le regole all’interno della comunità erano ferree e i metodi muccioliniani si manifestavano ad ogni “sgarro”, come si dice in Romagna.
Guardando la serie mi sono chiesta: ma le donne, così poco raccontate dal documentario, cosa avranno dovuto subire in questo clima? Se gli uomini venivano umiliati e maltrattati, che ne era delle ragazze? Come poteva non esserci misoginia? Sono riuscita a chiederlo a una di loro, la signora Mara, che preferisce non indicare il suo cognome perché “non sono una a cui piace apparire” ma che dopo una permanenza a San Patrignano lunga ben 25 anni di aneddoti da raccontare ne ha tanti. Anche qualche ferita, non fisica però.
Entrò a SanPa nel 1982, aveva 22 anni e una bimba di due anni e mezzo. Suo marito era entrato un mese prima di lei, così chiese a Muccioli di poterlo raggiungere. “Ero sola con una bimba, mi facevo, pesavo 45 chili. Avevo bisogno di quel posto. La bimba era con noi, Muccioli ci prese tutti e tre”.
"La colpa era sempre delle donne"
Le donne avevano pochissima libertà a SanPa, spiega Mara: “Mio marito per esempio dopo un anno e mezzo aveva in mano le chiavi della macchina. Noi assolutamente no. Le donne erano sempre quelle che creavano problemi”. Per esempio quando nasceva un flirt o una storia all’interno della comunità “la colpa era sempre delle donne”. Le cotte tra ventenni rappresentavano anche il bisogno di colmare dei vuoti, quelli lasciati dall’astinenza da droga. “Nelle relazioni era sempre colpa nostra. Eravamo noi a innescare, a provocare. Io non ho mai accettato questa concezione maschilista. Gli ormoni li abbiamo sia noi che loro, e le relazioni si costruiscono in due”. Quando Muccioli scopriva una tresca la punizione femminile era molto più pesante di quella maschile: “L’uomo veniva redarguito da Vincenzo, ma in maniera blanda. La donna veniva insultata, umiliata, messa alla gogna. Dovevi rispondere davanti a tutti riuniti in salone di quello che avevi fatto, e lì partiva il famoso “ciocco” dove te ne diceva di tutti i colori”. Mara ricorda il “ciocco” di una ragazza che conosceva molto bene: “Vincenzo venne in salone con una grattugia in mano, dicendo che serviva quella per spegnerle i bollenti spiriti”. “Sono cose pesanti”, dice.
Quando Muccioli minacciò di toglierle la bambina
Le chiedo se in un ambiente così misogino non la tutelasse il fatto di essere entrata insieme al marito. “Assolutamente no”, assicura, “al contrario”. “Proprio perché ero sposata non potevo permettermi nulla, sono stata insultata pubblicamente un paio di volte”. Racconta che una volta uscita dalla tossicodipendenza, essendo molto giovane, mise in discussione il rapporto di coppia: “Io e mio marito ci siamo divisi un paio di volte, abbiamo avuto dei problemi, ed è capitato che fossi attratta da altre persone, può succedere”. Per Muccioli invece non poteva e non doveva succedere. “Sei giudicata doppiamente colpevole. Ricordo che andai fuori di testa quando Vincenzo mi disse che mi avrebbe tolto mia figlia, che non l’avrei più vista”. La bimba fu affidata al marito, sempre all’interno della comunità, e succedeva che anche altre mamme venissero punite in quel modo. Per Mara “quelli furono momenti davvero difficili”.
Vincenzo Muccioli - Foto: LaPresse
Le punizioni femminili, più pesanti e umilianti
La parità di genere a San Patrignano non esisteva, racconta Mara. “La donna era considerata un niente, doveva solo stare al proprio posto. Le discriminazioni erano pesantissime, le punizioni diverse a seconda del sesso”. Gli uomini venivano “cioccati” per motivi lavorativi, perché andavano a ubriacarsi, o perché scappavano. “Ma quando era una donna a fuggire la punizione era molto più dura. Venivano rinchiuse, spesso completamente nude. Una ragazza che stava con me, sui 30 anni, fu chiusa in una gabbia completamente nuda, se non sbaglio per una settimana”. Poi, racconta Mara, dopo un po’ di tempo arrivava “il sostegno di Vincenzo, un suo abbraccio. Ma venivi sempre umiliata”.
"La ribellione? Era quasi impossibile"
Mara è rimasta a San Patrignano tantissimi anni, dal 1982 al 2007. Viene spontaneo chiedersi: perché le donne non si ribellavano? Avevano paura? “Una volta che ti ribellavi, cosa potevi fare?”, dice Mara. “Ho conosciuto ragazze che lo hanno fatto, che hanno duramente contestato i metodi di Vincenzo. Ma chi voleva lasciare la comunità nella maggior parte dei casi non aveva un posto dove andare, ricordiamoci che molti venivano dalla strada, e Vincenzo spesso ci aveva messo contro i nostri genitori”. Certo, “potevi provare a scappare, con il rischio che tornassero a prenderti con le punizioni annesse. E il rischio molto alto di ricominciare a farti. Se ti ribellavi non avevi alternative”. Nel caso di Mara, la paura era per la sua bambina. “Muccioli aveva le armi in mano, mia figlia per esempio. Avrebbe potuto ricattarmi se avessi alzato la testa”.
Sopportare per non ricadere nella dipendenza
Nel ’94 un’ex ospite Antonia Baslini, raccontò ai giornali quello che aveva subito dentro la comunità, e disse che SanPa “era come un lager”. “Conoscevo benissimo Antonia”, racconta Mara. “Si ribellò nei confronti di Vincenzo per le sigarette, infatti la sua punizione fu terribile”. A quel clima non ci si abitua mai, ammette. “Io ho sempre avuto grandi difficoltà ad accettare quello che vedevo, per questo sono sempre rimasta molto distaccata. Egoisticamente avevo bisogno di stare lì quindi sopportavo, pur non trovandomi mai d’accordo”. Muccioli alzava le mani su di voi?. “Lui personalmente mai, aveva chi lo faceva per lui. Vincenzo sapeva tutto quello che succedeva lì dentro, muoveva i fili, ordinava le punizioni. Nessuno potrà negare che la violenza era la prassi. E nel tempo le cose sono anche peggiorate. Vincenzo ha iniziato a delegare a persone completamente squilibrate, totalmente prive di capacità che il loro ruolo chiedeva, e che sfogavano le loro frustrazioni sulle altre persone”.
Gli abusi nel reparto manutenzione
Gli anni in cui Mara ebbe più paura furono “quelli della manutenzione”, negli Anni ’90, quando Muccioli sempre meno presente in comunità aveva delegato a persone con “grossi problemi”, “che raccontavano quello che volevano a Vincenzo”. Una sorta di potere acquisito per cui “avevi sempre paura di fare un passo falso”. Il responsabile del reparto manutenzione aveva messo gli occhi addosso a Mara, le diceva che prima o poi sarebbe finita lì dentro: “Io ero terrorizzata, sapevo cosa succedeva. Conoscevo donne che avevano vissuto in quel reparto, erano botte, violenze continue. Non avrei mai accettato di finire lì”. Con “violenze” Mara intende anche sessuali, stupri. Lei in prima persona non è mai stata abusata né picchiata, “credo non lo avrei mai accettato, e mio marito neanche. Menare una donna per lui era la peggior violenza in assoluto”.
"Confidarsi con altre ragazze? Troppo pericoloso"
Chiedo a Mara se a SanPa esistesse una forma di sorellanza. Se qualcuna veniva violentata, lo raccontava ad altre ragazze, cercava sostegno in loro? “Assolutamente no, tutti sapevano che gli stupri avvenivano, ma non se ne parlava mai, non ci si poteva permettere di raccontarlo a qualcuno, era troppo rischioso. Si comunicava con gli occhi”.
Mara racconta anche di una sorta di diffidenza: “Io ero legata a molte donne ma quel clima non permetteva di creare un’amicizia. In 25 anni non mi è successo, non mi sono mai aperta completamente con nessuna, rimaneva tutto in superficie”.
Tornare alla vita normale: difficile, ma liberatorio
Mara e la sua famiglia restano a SanPa per 25 lunghi anni. “Nel ’95 dopo la morte di Vincenzo volevamo andarcene, poi per una serie di motivi, tra cui la nascita di nostro figlio nel ’90, siamo rimasti, Ma ovviamente uscivamo spesso, avevamo la macchina, non eravamo chiusi lì”. La figlia maggiore se ne è andata nel 2000, loro tre nel 2007, durante la gestione del figlio Andrea.
Tornare alla vita reale è stato per Mara “da una parte scioccante: dovevo fare i conti con i problemi quotidiani, l’affitto, le bollette” ma “era talmente tanta la voglia di vivere la nostra vita che quel peso non l’ho sentito troppo”. Era forte il desiderio di mettersi in gioco e sentirsi “finalmente libera”.
"Vincenzo? Un uomo carismatico da cui ho sempre tenuto le distanze"
Quando le chiedo cosa pensa oggi di Vincenzo Muccioli sento un sospiro lunghissimo dall’altra parte del telefono. “È molto difficile rispondere a questa domanda. A differenza di altri non l’ho mai vissuto come un padre. Per me è un uomo che ha creato una grande comunità, un posto di cui avevo bisogno, con i suoi lati oscuri ma anche momenti felici”. Per Mara “Vincenzo era un uomo carismatico, che sapeva ascoltare, ma nient’altro. Non mi è mai piaciuto troppo, non sono mai entrata in empatia con lui”.
Quello che si porta dietro dopo tanti anni lì dentro, dice Mara, è “una gran forza”, quella che le ha permesso di ribaltare la propria vita diverse volte e lottare sempre. Le chiedo se per Vincenzo sentisse riconoscenza: “Vivere a San Patrignano produceva in molti di noi sensi di colpa. Avevi avuto bisogno di questo posto, sei entrato come un pezzente, sei in debito. Io questo l’ho sentito molto, anche più tardi, negli anni. Il senso di colpa mi è rimasto addosso. Sento più questo della riconoscenza”.
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