Noemi, Barbara, Maria Cristina. Tre vittime, che non hanno fatto niente per diventarlo. In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, ricordiamo le loro storie.
Noemi, Barbara, Maria Cristina. Tre vittime, che non hanno fatto niente per diventarlo. In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, ricordiamo le loro storie.Sarah Scazzi, Elena Ceste, Yara Gambirasio, Roberta Ragusa, Desirée Mariottini, Pamela Mastropietro. Tutti conosciamo i nomi di queste vittime di femminicidio. Purtroppo, questo gruppo di donne ammazzate (e diventate loro malgrado protagoniste di celebri casi di cronaca) rappresenta solo la punta dell’iceberg. Esiste infatti un sommerso enorme e sconvolgente, fatto di donne che ogni giorno perdono la vita in Italia, vittime di cieca violenza ma anche di stereotipi, loro sì, duri a morire.
Proprio in concomitanza con la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, De Agostini pubblica Favole da incubo. Dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora. Scritto a quattro mani dalla criminologa Roberta Bruzzone e dalla curatrice del sito In Quanto Donna Emanuela Valente, questo libro parte dalle favole più conosciute, come Biancaneve e Cappuccetto Rosso, per andare a smascherare gli stereotipi sessisti di matrice patriarcale che sono ancora molto radicati nella nostra cultura. E, perciò, alla base di questi delitti. Il volume analizza alcuni femminicidi entrati nell’immaginario collettivo, come quello delle già citate Elena Ceste e Roberta Ragusa, e altri meno conosciuti. Ecco alcune vittime “dimenticate” ricordate nel libro.
Noemi Durini – Giulietta sotto le pietre
Settembre 2017, Specchia (Foggia). «Noemi ha da poco compiuto sedici anni ed è innamorata. Ma il suo amore per Lucio Marzo è ostacolato dalle rispettive famiglie. Un po’ come Romeo e Giulietta nella tragedia shakespeariana. E, come Romeo e Giulietta, più le famiglie si oppongono alla loro relazione, più Lucio e Noemi sembrano determinati a stare insieme, nonostante gli alti e bassi, gli allontanamenti e i riavvicinamenti, le liti e gli schiaffi».
La loro è una relazione tossica, in cui fin da subito sono entrati anche i genitori di lui, Biagio e Rocchetta: «di fatto si è scatenata una vera e propria guerra per il possesso di Lucio, che diventa sempre più insicuro e sempre più violento. Sempre più instabile. Sempre più pericoloso. Comincia a manifestare un controllo via via più serrato nei confronti di Noemi, che non ha più alcuna libertà. di movimento». Basta uno sguardo di troppo per scatenare l’aggressività di Lucio: gli episodi in cui lui la picchia davanti a tutti, ormai, non si contano più. Lei, povera piccola, continua ad amarlo, a volerlo con sé: «”Fuggiamo” continua a ripetere Noemi. E anche Lucio inizia a sentire il desiderio di fuggire, ma non nel senso che intende lei. Vuole scappare lontano da tutte quelle costrizioni, dalle imposizioni. Perciò, quella notte del 3 settembre 2017, Lucio decide di liberarsi. Di Noemi innanzitutto». Che muore tra gli ulivi di Castrignano del Capo, nel campo dove i due tante volte hanno fatto l’amore, pugnalata a tradimento al collo. Lucio «l’ha vista vomitare sangue, barcollare e cadere a terra. L’ha trascinata per alcuni metri, fin sotto il muretto a secco che sorregge un terrazzamento di ulivi, e ha iniziato a ricoprirla di pietre, quelle pietre bianche e tondeggianti che si vedono qua e là, sparse per le aspre campagne del Basso Salento. Mentre lei ancora respirava, l’ha sepolta viva e lasciata lì». A morire. E poi è tornato a casa, come se nulla fosse. Dieci giorni dopo Lucio confesserà, dicendo di aver ammazzato Noemi perché voleva uccidere i suoi genitori. È stato condannato a 18 anni e 8 mesi di carcere.
Barbara Cicioni - Biancaneve e la trappola del Mulino bianco
Maggio 2007, Marsciano (Perugia). «Barbara era così: dolce e romantica, ma risoluta. Come Biancaneve, aveva i capelli corvini e la pelle candida, era delicata come la neve ma resistente come l’ebano. Era bellissima, come una principessa delle favole. Ma era anche molto testarda. Aveva deciso che la felicità che non aveva avuto nell’infanzia l’avrebbe trovata in una vita semplice e in una casa serena, dove tutti sarebbero stati insieme. per sempre. Avrebbe lavorato sodo per raggiungere il suo scopo. Perché era una con i piedi per terra, una che non si dava per vinta e sapeva che per realizzare i desideri».
Barbara ha solo 14 anni quando si fidanza con Roberto Spaccino. Lui ne ha già 20 e ci mette poco a metterle le mani addosso: la prima volta succede «quando lei non ha neppure quindici anni ed è poco che stanno insieme. Barbara ha “osato” farsi il secondo buco all’orecchio». Né il matrimonio né l’arrivo di due bambini funzionano: niente può trasformare Roberto nell’uomo che crede di essere. La loro non è e non può diventare la famiglia del Mulino Bianco: ogni giorno, Roberto «trova un pretesto per picchiare la moglie, per tirarle i capelli, per insultarla. Basta un po’ di polvere, un calzino spaiato, una cena non ancora pronta e giù parolacce, sputi, calci, smanate e sventoloni». Quando rimane disoccupato, Barbara gli trova perfino un lavoro, assumendolo nella lavanderia che ha preso in gestione. Diventa il suo capo: «l’ennesimo errore, perché Roberto quella situazione proprio non la tollera. Diventa ancora più aggressivo, denigratore. E ancora più pericoloso. In paese, non si deve sapere che lui lavora per sua moglie».
Nella famiglia Spaccino sono gli uomini che comandano: «Prima o poi l’ammazzo», ripete spesso Roberto, ma nessuno in fondo ci crede davvero. E fanno male. La situazione degenera quanto Barbara rimane incinta per la terza volta, di una figlia che il marito non vuole. La sua vita, insieme a quella della bambina che porta in grembo (è all’ottavio mese di gravidanza), finisce nella notte tra il 24 e il 25 maggio 2007, nella camera da letto della sua villetta di Compignano, frazione di Marsciano. L’orco Roberto la strangola, senza pietà, mentre a pochi metri dormono Nicolò, di sette anni, e Filippo, di quattro. Proverà a simulare un tentativo di rapina, accusando dell’uccisione della moglie incinta una fantomatica banda di ladri: non gli crederà nessuno. Verrà arrestato poche ore prima del funerale e condannato all’ergastolo.
Maria Cristina Omes, insieme ai Figli Giulia e Gabriele - L’Uomo Nero che giocava a fare il papà
Giugno 2014, Motta Visconti (Milano). Maria Cristina e Carlo Lissi si sono conosciuti all’oratorio e non si sono più lasciati. «Il rapporto tra i due è un po’ come quello di due bambini che giocano a fare la famiglia felice. Quando infine si sposano, sembrano avere davvero tutto: le foto del matrimonio, la villetta rosa e due figli, un maschietto e una femminuccia. Perfino la piscina e il gazebo in giardino, e il cane, che nella famiglia perfetta non può certo mancare». Lei ha sette anni più di lui, che «esce da quella villetta, da quella vita, da quel ruolo di marito e padre che lei gli ha affidato. Esce spesso e sempre più volentieri da quella casa e da quella condizione, almeno con la fantasia». Si tratta di un matrimonio sbagliato fin dall’inizio, celebrato nonostante i mille dubbi di Carlo prima delle nozze. Lui tradisce la moglie due volte, con delle colleghe. Maria Cristina chiude gli occhi. Poi ne arriva un’altra, una 24enne per cui perde la testa: «È innamorata del suo fidanzato e non ha alcuna intenzione di lasciarlo. Ma lui si convince che l’unico ostacolo tra loro sia la sua famiglia. Sono loro, quella moglie e quei due bambini, l’unica barriera tra lui e la vita che vorrebbe, tra lui e l’amore, tra lui e la felicità. E allora prende l’unica decisione che la sua mente formattata riesca a intravvedere. Quella famiglia non deve esistere, deve essere cancellata».
Carlo preme il tasto “reset” la sera del 14 giugno 2014, quando stermina la famiglia che non avrebbe voluto: prima uccide a coltellate la moglie, poi va nelle camerette dei bambini e li sgozza. Infine fa una doccia, si veste e raggiunge gli amici al bar, per guardare insieme la partita Italia-Inghilterra. Simula un’irruzione finita male, ma la recita dura poco: arriva l’ergastolo: «Lo chiamavano “Carlo il represso”, ma pensavano che avrebbe resistito così tutta la vita. Purtroppo, si sbagliavano».
I passi tra virgolette sono tratti dal libro Favole da incubo. Dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora.
Foto apertura: ARTIT OUBKAEW - 123.rf