I lunghi ricoveri, i tre cicli di chemio, la preoccupazione dei medici e il timore che il donatore si rifiutasse all’ultimo. Senza aver mai paura della morte. In vista della Giornata Nazionale per la lotta contro le Leucemie, i Linfomi e il Mieloma abbiamo parlato con Roberta, che ha sconfitto la leucemia.
I lunghi ricoveri, i tre cicli di chemio, la preoccupazione dei medici e il timore che il donatore si rifiutasse all’ultimo. Senza aver mai paura della morte. In vista della Giornata Nazionale per la lotta contro le Leucemie, i Linfomi e il Mieloma abbiamo parlato con Roberta, che ha sconfitto la leucemia.Chemioterapia, trapianto, infusioni, pastiglie e forza di volontà. Se ci fosse una ricetta contro la leucemia, sarebbe questa. Senza dosi precise, si badi bene, perché ogni percorso fa storia sé, così come qualsiasi corpo reagisce in modo differente alle terapie. Roberta, 50enne romana che lavora per una ditta farmaceutica, all’inizio ha come rifiutato la malattia, poi l’ha affrontata a muso duro e infine l’ha sconfitta, tornando alla vita che aveva, ma apprezzando i piccoli piaceri che sa regalare, in meno di un anno. Noi l’abbiamo intervistata, in vista della Giornata Nazionale per la lotta contro le Leucemie, i Linfomi e il Mieloma, un’importante occasione per sensibilizzare sulle neoplasie che, ogni anno, colpiscono molti italiani.
Come ha scoperto di avere la leucemia?
Per caso. A ottobre del 2012 avevo fatto delle analisi del sangue richieste dal mio ginecologo: i risultati erano tutti ok, tranne un valore che si riferiva alla grandezza dei globuli rossi. Li ho mostrati a una mia amica ematologa, che mi ha suggerito di fare altre analisi. I risultati sono arrivati a dicembre.
Che cosa dicevano?
Beh, all’inizio li ho ignorati. Dovevo andare in settimana bianca, quindi non li ho mostrati a nessuno. Passato Capodanno ho avuto qualche impegno di lavoro e li ho portati all’ematologa attorno al 10 gennaio, che mi ha prenotato un puntato midollare per il 17: lavorando in un’azienda farmaceutica, sapevo che non era un buon segnale. Quando sono tornata in clinica, prima dell’anestesia mi hanno fatto tutti i controlli del caso, da cui sono emersi tutti i dati sballati.
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A quel punto cosa è successo?
È saltato il puntato midollare: mi volevano ricoverare direttamente. Io mi sono rifiutata, perché non avevo detto a nessuno che ero lì. Sono andata via, con la promessa che sarei tornata il giorno seguente.
Suo marito ne era al corrente?
Il 17 sera gli hanno detto che dovevo avere qualcosa a livello di neoplasia. Lo hanno detto anche a me, ma mi sono mentalmente rifiutata. Una decina di anni prima avevo perso un caro amico per colpa della leucemia: era una sorta di spauracchio.
Cosa è successo il giorno successivo?
Il 18 mattina dopo aver accompagnato mia figlia all’asilo le ho detto che sarei stata io a riprenderla. Poi sono andata all’ospedale Sant’Andrea, dove ho fatto il prelievo midollare con cui hanno rilevato che avevo oltre l’80% di blasti nel sangue. A quel punto non mi hanno più fatta uscire. Mi hanno chiusa là dentro, con mia figlia che mi stava aspettando.
Per quanto tempo è rimasta in ospedale?
Fino al 25 febbraio. Per i primi giorni sono stata in stanza con un’altra persona e ho assunto farmaci per via orale, poi sono passata in isolamento. Il primo ciclo di chemioterapia, quello di induzione, è iniziato poco dopo ed è durato una decina di giorni, a volte 24 ore su 24. Con questa terapia vengono azzerati i globuli bianchi, dunque c’è un alto pericolo di infezione.
Come ha vissuto la perdita dei capelli?
«Mi cadranno i capelli?» è la prima cosa che ho chiesto ai medici dopo la diagnosi. Alla fine è stata invece la cosa di cui mi sono interessata meno. Inizialmente la dottoressa era stupito dal fatto che ne stessi perdendo pochi. Quando sono caduti, poi, ho semplicemente comprato una parrucca.
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Come ha reagito al primo ciclo di chemio?
Ho avuto un po’ di febbre alta, con grande preoccupazione dei dottori. Ma in generale il mio corpo ha reagito molto bene: a febbraio ero già in remissione completa, senza blasti nel sangue. Visto il pericolo elevato di ricaduta, mi hanno detto che avrei dovuto fare il trapianto da terzi.
Nel frattempo, il 25 febbraio torna a casa.
Sì, mi sono venuti a prendere ed è stato bellissimo vedere gli alberi e la natura. Sono rimasta a casa per una settimana: potevo uscire con la mascherina, che doveva indossare chi veniva a trovarmi, così come i calzari. Non mi hanno detto che avrei dovuto mettere la crema, solare, così mi sono presa un eritema. A fine febbraio.
Sua figlia come ha vissuto tutto questo?
Più o meno sapeva cosa stava accadendo. Ho un lavoro che mi porta a viaggiare molto, dunque era abituata a vedermi partire. Dopo la diagnosi le abbiamo detto che ero partita per l’America, ma si è arrabbiata perché me ne sono andata senza preavviso. Ai primi di febbraio mio marito l’ha portata da una psicologa infantile, che ha detto: «La bambina deve sapere tutto, spiegato con parole semplici». La mia leucemia è diventata così una tosse appiccicosa e mamma, per non attaccarla, doveva stare in ospedale. Una volta sono andata a prenderla all’asilo con la mascherina e una sua amica mi ha chiesto: «Ti è passata la tosse appiccicosa?». L’aveva detto a tutti (ride, ndr).
Dopo quella settimana a casa cosa è successo?
Sono tornata al Sant’Andrea per il secondo ciclo di chemio, quello di consolidamento, già sapendo che avrei fatto presto il trapianto, dato che attraverso una banca mondiale avevano trovato un donatore compatibile al 100%. Ho trascorso un altro mese in ospedale, fino alla fine di marzo. Una volta a casa, c’è stato un problema.
Quale?
Mi è venuta una forte sinusite, di cui non avevo mai sofferto. Le ematologhe si sono spaventate e hanno spinto affinché fossi operata, nonostante avessi le piastrine molto basse. Così, ad aprile ho fatto l’intervento ai seni nasali, ritardando di qualche giorno il trapianto. Con una grande paura, quella che il donatore si tirasse indietro.
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Per fortuna non è andata così. Che cosa sa di lui?
So che è americano e caucasico, che aveva 23 anni e pesava 105 chili. Niente di più.
Quando hai fatto il trapianto?
Il 22 maggio. Prima mi sono sottoposta alla terza chemio, che è stata devastante: dopo un’ora di infusione ho iniziato infatti a vomitare. Dopo il trapianto, che ho fatto a Tor Vergata, ho avuto spesso la nausea anche una reazione classica come la mucosite, con oppiacei per ridurre il dolore. Un giorno mio marito ha portato la bambina in ospedale: voleva abbracciarmi ma non è stato possibile. Brutto momento, quello. Poi, verso il 10 giugno, a sorpresa mi hanno fatto tornare a casa.
Troppo presto secondo lei?
Sì, ma abbiamo pensato che servisse un letto. Invece poi ho capito che nel reparto doveva esserci in corso qualche infezione: meglio non rischiare con chi ha le difese immunitarie molto basse. A casa sarei stata più al sicuro. Ma ci sono rimasta poco. Dopo qualche giorno sono stata ricoverata nuovamente per cistiti emorragiche con febbre molto alta. Pensavo di aver chiuso con gli ospedali e invece ci ero tornata: è stato il ricovero peggiore di tutti.
Poi, finalmente torna ‘davvero’ a casa.
Sì, con qualche tormento causato dal citomegalovirus, che abbiamo tutti ma che diventa pericoloso in un corpo senza difese immunitarie. Curato con un farmaco piuttosto tossico a livello renale, mi è venuto tre o quattro volte. Nelle cure a infusione coinvolgevo anche mia figlia, nel ruolo della crocerossina. Sono stata poi sottoposta a alti dosaggi di cortisone. Ero diventata la Sora Lella (ride, ndr), con la faccia a luna piena, il grasso dietro al collo e sulla pancia: ho preso molto peso.
Ci sono particolari precauzioni da seguire nel decorso post-operatorio?
Dopo il trapianto partono i fatidici 100 giorni, in cui occorre seguire un regime alimentare e comportamentale molto rigido: no a uova, patate e gelato artigianale, ad esempio. Vietato andare in luoghi affollati, indossare sempre la mascherina e coprirsi contro il sole. Prendevo 23 compresse al giorno: la mia giornata era scandita dall’assunzione di pillole.
Dopo quanto tempo è tornata alla normalità?
Ho ricominciato a lavorare il 3 marzo del 2014, a nove mesi e mezzo dal trapianto. Quanto alla guarigione, per dirsi fuori dalla malattia bisogna aspettare cinque anni, durante i quali i controlli via via si diradano. Adesso ne devo fare solo uno all’anno.
Durante il suo percorso hai mai avuto paura di morire?
Mai. Ho avuto momenti di down, ma continuavo a ripetermi che non potevo permettermi di lasciare al mondo una bambina così piccola. Chi mi stava vicino ha avuto paura che morissi, non io.
La malattia le ha ‘regalato’ una visione diversa della vita?
Sì, una filosofia di vita che chiamo ‘Sticazzi’ (ride, ndr). Ho imparato a dare valore a ciò che conta davvero, a non arrabbiarmi ad esempio per il lavoro e ad apprezzare le piccole cose che prima davo per scontate.
Che consiglio vorresti dare a una persona a cui viene diagnosticata la leucemia?
Lo stesso che mi hanno dato le ematologhe. Il 50% della guarigione dipende dalla testa, dunque il modo in cui si affronta la malattia, che è curabile grazie ai progressi della medicina, è fondamentale. Bisogna reagire con la testa, perché se andiamo giù con quella, poi il corpo le va dietro.
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