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Mollo tutto e cambio vita: lo speciale

PEOPLE: L'ATTUALITA'
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Leonardo Piccione: «La mia nuova vita tra Italia, Islanda e scrittura»

Dall'assolata Puglia alla fredda e vulcanica Islanda, dai quieti numeri alla rivoluzionaria scrittura: storia del viaggio di un giovane scrittore appassionato di lava e ciclismo.

Dall'assolata Puglia alla fredda e vulcanica Islanda, dai quieti numeri alla rivoluzionaria scrittura: storia del viaggio di un giovane scrittore appassionato di lava e ciclismo.

Leonardo Piccione non è sempre stato un uomo di lettere. Per lungo tempo i numeri sono stati la sua lingua principale. Le scadenze e il controllo, la sua religione. Da Corato, in provincia di Bari, ha compiuto diversi pellegrinaggi, tutti comandati dalla formazione universitaria, fino ad arrivare a Oxford. Poi è arrivato – negli animi inquieti arriva sempre – quel fatale crack: basta, mollo tutto.

La bussola per un rivoluzionario cambio di rotta è stata la passione per le isole vulcaniche e per la scrittura. Lo hanno spinto verso l'Islanda, dove ora lavora nel bar di un hotel, dedicandosi alla scrittura d'inverno. Da questo intreccio di ribollenti passioni è nato Il libro dei vulcani d'Islanda. Storie di uomini, fuoco e caducità, edito da Iperborea, casa editrice italiana specializzata in letteratura nord-europea.

La passione per l'Islanda si intreccia con il ciclismo. Grazie al collettivo Bidon, Piccione ha preso parte a diversi racconti corali dedicati a questo sport. L'ultimo è Acqua passata. Vita, sorte e miracoli delle borracce nel ciclismo (People). La scrittura non basta, certo. La nuova economia della vita di Leonardo è fatta di tanto lavoro estivo in un albergo, che gli permette di mettere da parte i soldi per stare in Islanda d'inverno. Nei mesi freddi vive in una delle camere dell'hotel. D'estate condivide la casa con un altro ragazzo. Il Covid ha scombinato un po' i suoi piani, ma ancora una volta gli ha ribadito il senso di questo cambio di rotta: non siamo noi il centro di tutto.

Mollo tutto e cambio vita: la storia di Leonardo Piccione

Leonardo Piccione, 33 anni, come sei finito da Corato in Islanda?
Passando per l'Inghilterra. Ero a Oxford per completare il mio dottorato di ricerca. Ero molto provato. Ho approfittato dei voli low cost da Londra a Reykjavík e ho trascorso una settimana nel Sud dell'Islanda. La verità è che sin dagli anni del liceo guardavo alle isole attraverso gli atlanti, soprattutto verso quelle vulcaniche. Ma da Corato non era semplicissimo arrivarci. È stata un'epifania.

Cos'hai scoperto nella tua prima settimana lì?
Ho scoperto una terra con la quale, oltre a esserci un'affinità intellettuale, c'era un feeling fisico, legato al sentimento del vivere e dello stile di vita, un modo di intendere i giorni il trascorrere del tempo a me affine. Semplicemente, lo stare al mondo.

Com'è stato il primo approccio con l'Islanda?
Ricordo il trasferimento dall'aeroporto alla città di Reykjavík: si attraversa un campo di lava, una distesa di pietre nere, dove non c'è nulla. Mi ha colpito il sentimento dell'inquietudine, che rispecchiava quello che vivevo dentro di me. L'Islanda è una terra indecisa. È talmente giovane che non ha deciso cosa fare da grande. È ancora in una fase di sviluppo geologico e si percepisce questa esigenza di cambiare.

Cosa facevi prima di questo viaggio?
Sono laureato in statistica, con specializzazione in demografia. Stavo seguendo il percorso della carriera universitaria. Nel momento in cui decidere se fare il post dottorato fino a diventare insegnante o di proseguire nella ricerca, ho capito che non era la strada giusta per me, almeno a 27 anni.

E hai deciso di cambiare rotta. Rimpiangi mai quella scelta?
Sono contento di averla fatta: ha richiesto coraggio e fatica. Avevo investito tanto nella carriera universitaria, ma avrei fatto qualcosa che non mi avrebbe completato. Tra le altre cose, scrivere. Questa vena più letteraria era sempre stata lì, qualcosa che avrei voluto fare, che ho cercato di seppellire a lungo, studiando i numeri anziché le parole. Solo che poi viene fuori. Sento di aver avuto il coraggio e l'incoscienza - che poi le due cose confinano - di seguire questa indole.

Dopo quel primo viaggio cosa è successo?
Ho avuto la necessità di raccontare la passione e l'attrazione per questa terra, l'Islanda, e il mezzo più adatto era scrivere queste storie. Volevo trasferire ad altri questo sentimento che l'Islanda aveva suscitato in me. Ho iniziato a venire qui più spesso e più a lungo. Mi sono offerto di catalogare libri usati facendo il volontario in una libreria. Qui si legge e si scrive molto. In cambio avevo vitto e alloggio a Selfoss. Questo è stato il mio primo passo da residente del posto. Ho messo insieme un po' di idee e storie, che sono poi diventate il nucleo del mio libro.

Perché hai voluto raccontarne i vulcani?
I vulcani sono il simbolo dell'inquietudine che attraversa questa terra, di questo qualcosa che succede soprattutto in luoghi lontani dalla vista. Anche se eruttano ogni 5, 6, 10 anni, sotto la terra succede di tutto, e questo rispecchia anche il mio modo di essere. Ci teniamo le cose dentro, ma poi abbiamo la necessità di eruttare. È proprio questo parallelo tra uomini e vulcani ad avermi affascinato.

L'islandese non è una lingua facilissima: come hai superato questo ostacolo?
Gli islandesi sono fenomenali con l'inglese: lo parlano correntemente con i turisti, dato che negli ultimi 20 anni l'accoglienza è stata l'attività principale sull'isola. Quindi non ho avuto la necessità di imparare l'islandese, almeno nei primi due mesi. Più avanti è stata una necessità per entrare a far parte della comunità. Ho cominciato pian piano. Ora quando vado al bar o alla stazione di servizio - uno dei luoghi cult della mia esistenza islandese, fulcro della vita sociale del luogo – so come chiedere un caffè. Quella che mi piace di più ha una vista straordinaria della baia. Ora vivo a Húsavik, 2.000 abitanti circa, soprattutto di inverno, periodo preferito dal punto di vista della scrittura.

A proposito di scrittura, le tue non sono solo “traversate” letterarie in solitaria. Sei parte del collettivo Bidon, con cui hai creato diversi libri dedicati al ciclismo, altra tua passione insieme ai vulcani e all'Islanda. Da dove viene questo interesse per lo sport?
Sempre dai tempi del liceo, quando compravo la Gazzetta dello Sport la la leggevo tutta. Durante quegli anni il racconto del ciclismo mi ha colpito perché attraversa luoghi e vita. Poi di ciclismo hanno scritto Dino Buzzati, Vasco Pratolini, Anna Maria Ortese: c'è una tradizione importante nella letteratura italiana.

Com'è oggi la tua vita? Torni mai in Italia?
Torno due volte l'anno: da Pasqua all'inizio dell'estate e dalla fine dell'estate fino a Natale. D'inverno il turismo è limitato: gli alberghi e i musei sono chiusi o non lavorano. In questo periodo mi concentro di più su lettura e scrittura. D'estate collaboro con il museo dell'esplorazione e poi faccio il receptionist in un albergo. Quest'anno sono venuto a gennaio e poi sono tornato in Islanda. L'albergo in cui lavoro ha aperto un bar tutto all'aperto per via del Covid-19 e mi ha chiesto di stare al banco. Quindi sto dando una mano in questo bar che si trova in una posizione molto fortunata, con un grande panorama. Sto imparando una cosa nuova.

Cosa ti manca dell'Italia?
I rapporti personali, la mia famiglia e i miei amici. In generale, mi manca il tipo di legami che creiamo. In Islanda serve più tempo per diventare amici. È un popolo abituato all'indipendenza, alle distanze, alla solitudine. Noi lo siamo molto meno. Per la mia indole riesco a sopportare e a vivere bene la mia solitudine. Ma è lì che percepisco la differenza rispetto al nostro modo di vivere, molto più collettivo. In Islanda è facile che non ci si senta e veda a lungo, ed è una cosa accettata.

Cosa non ti manca della tua vita di prima?
Non mi mancano le scadenze, la necessità di avere sempre sotto controllo tutto. Non mi manca essere il centro di tutto. Qui, in Islanda, non puoi esserlo. Sei tu ad esser soggetto ad altro, cioè alla natura, al tempo che cambia.

Un consiglio a chi vuole mollare tutto e cambiare vita.
Ciò che abbiamo imparato anche grazie all'emergenza Coronavirus è che viviamo nell'incertezza più assoluta. Fare programmi per tanti mesi o anni a venire non ha senso. Il mio consiglio è di spostare la prospettiva, riposizionandola dal lungo al brevissimo termine.