La didattica a distanza ci ha costrette a fare da maestre, prof, bidelle e, all’occorrenza, a diventare tecnici informatici. Noi mamme rivogliamo il nostro ruolo: siamo madri e non siamo nate per con-tenere tutto tra le quattro mura di casa.
La didattica a distanza ci ha costrette a fare da maestre, prof, bidelle e, all’occorrenza, a diventare tecnici informatici. Noi mamme rivogliamo il nostro ruolo: siamo madri e non siamo nate per con-tenere tutto tra le quattro mura di casa.Il vocabolario colloca la parola mamma tra i sostantivi di genere femminile, ma nella storia di tutti i giorni (quelli passati da millenni e quelli che verranno tra altrettanti millenni) la mamma è un verbo!
Mamma è verbo perché è sempre in azione; perché si coniuga camaleonticamente nel tempo e sulla linea della vita; perché, pur restando madre, non è mai uguale a se stessa.
In modo particolare, sino a prima del Covid, il verbo di elezione della maternità è stato “portare”.
La mamma è colei che:
- porta in grembo;
- porta alla luce partorendo;
- consola e accudisce portando il bambino tra le braccia;
- porta alla vita educando;
- è deputata a portare il figlio nella società attraverso il supporto della scuola e delle amicizie.
Questo verbo è stato strappato a noi mamme con l’avvento della pandemia e, in modo particolare, è stato stravolto con la DaD.
Qual è il ruolo delle mamme col Covid, l’isolamento sociale e la DaD?
Dopo aver passato anni ad interrogarci su come e quanto portare i nostri figli fuori dalle mura di casa perché la vita li accogliesse nella società, la coniugazione e lo scopo della maternità sono cambiate: senza soluzione di continuità e con una immediatezza priva di tempi di adattamento, dal verbo portare siamo tutte passate al verbo con-tenere.
Una volta tenere il bambino in casa con noi (con-tenerlo nelle mura domestiche) era considerato un imperdonabile errore socio-educativo: i bambini senza scuola, sport e socializzazione erano condannati al disadattamento sociale, così ci hanno sempre detto!
Adesso, all’opposto, il contenimento dei contatti e delle relazioni è quello che ci è toccato in sorte per sopravvivere al virus. I genitori, e in particolare le mamme, per ruolo, elezione e propensione, sono oggi deputati a tenere i bambini in casa, con-tenendo tutto nei pochi metri quadri a disposizione (in case non sempre generose di spazi e serenità).
I nostri figli vivono online la scuola, lo sport, il catechismo e persino le feste di compleanno consumate soffiando sulle candeline davanti a una “schermata in classe-visione” su Zoom o Meet. Scusate, ma non eravamo pronte a questo cambio di verbo e ci fa terribilmente male vedere il corpo dei nostri figli intrappolato tra la sedia della cucina e i 17, massimo 22 pollici del computer.
Mamme e DaD, tutto quello a cui avevamo ispirato il nostro stile educativo è perduto!
Spesso mi torna in mente un dubbio: ma noi non erravamo quelle a cui esperti, insegnanti e dottori raccomandavano un’esposizione massima agli schermi di un’ora al giorno e meno ancora sotto i 6 anni? Da un anno a questa parte, non solo è cambiato il verbo di noi mamme, ma siamo state costrette a fare i conti con parole nuove, nuovi ruoli e organizzazioni di vita di emergenza. Peccato che quell’emergenza, che ci aspettavamo di affrontare e superare, stia pian piano diventando una nuova normalità non supportata, però, da un’adeguata impalcatura sociale ed economica. Ma procediamo con ordine, giusto perché sia chiaro che quella della mamme non è una lamentela, quanto piuttosto una presa di coscienza e una richiesta di attenzione verso i minori.
La politica di gestione della pandemia sembra avere affidato i minori alle famiglie, alla pazienza della mamme, alla resilienza dei genitori e dei nonni, alla Buona di Dio e alla speranza. La speranza, più di ogni altro sentimento, sfuma nella più concreta domanda sul quando finirà tutto questo.
Era Marzo 2020, quindi esattamente un anno fa, quando la DaD fu presentata a noi mamme come strumento emergenziale. La didattica a distanza era l’equivalente delle scialuppe di salvataggio del Titanic, ma con la promessa, oggi variamente disattesa, che nessuno sarebbe rimasto indietro o sarebbe caduto nell’acqua gelida di quell’oceano di solitudine in cui ci sentivamo tutti dispersi. Purtroppo sin da subito i mantra sono stati sconfortanti: “Maestra non sento”; “Prof ti vedo a scatti”. E, di contro, richieste di supporto: “Mamma, per favore aiuta tuo figlio!” ovvero “Uscite e rientrate; rivviate il PC; controllate il Wi-Fi e la connessione”.
Una volta le madri erano iconizzate come angeli del focolaio, poi con l’avvento del più positivo femminismo e della parità di genere siamo state ritratte come Wonder Woman (io per prima mi professo una donna-mamma in stile Wonder Woman inside). Ma adesso viviamo altri tempi e grazie al rapporto mamme e DaD potremmo essere raffigurate in molti modi differenti:
- come bidelle;
- simili a educatrici in stile Signorina Rottenmeier di Heidi, inacidite dalla connessione altalenante e dal fracasso che viene dal rincorrersi di voci nel PC;
- come delle Maestre o Prof, pur non essendolo né per scelta né per vocazione;
- ed in ultimo, ma non per importanza, possiamo anche essere avvicinate a dei tecnici informatici operativi 24 ore su 24 tra classroom, registro elettronico, Ggoogle Meet e quant’altro.
Ma noi non siamo niente di tutto questo se non mamme.
Mamme e DaD, il grande problema della confusione dei ruoli
Foto: Cathy Yeulet/123RF
La DaD ha violato la privatezza e l’intimità delle nostre case, in un clic la scuola fa irruzione nella stanzetta del bambino (per i più fortunati, ovvero quelli che ne hanno una a disposizione) o nella cucina oppure nella sala di casa. Stessa cosa avviene per il catechismo e per le lezioni di ginnastica in zona rossa.
Le performance meno tollerabili, quelle che aggrediscono anche l’ambiente esterno, un po’ come l’inquinamento acustico dei clacson in tangenziale, sono i flauti suonati in DaD alla scuola media; per non parlare degli acuti di alcune maestre quando tutto è perduto e lo schermo si è fatto irrimediabilmente color nero notte.
Abbiamo visto studenti sparire al primo accenno di interrogazione; abbiamo assistito ai disperati tentativi di mamme elicottero di suggerire da dietro al PC; abbiamo constatato che le famiglie meno digitalizzate sono state fortemente penalizzate e che il potere della connessione web è diventato una discriminazione sociale importante. E’ indubbio, infatti, che una connessione scarsa sbatte il bambino “fuori dai cancelli (virtuali) della scuola”. Allo stesso modo, non avere una stampante in casa è stato come entrare in classe senza nemmeno la penna. E lo smart working, in concomitanza con la DaD dei figli, si è dimostrato tutto tranne che agile o intelligente.
In questo frullatore di nuovi stimoli e assetti mai pensati prima, le maestre e i professori stentano a mollare la presa:
- compiti su compiti vengono assegnati quasi a “riempire le giornate in zona rossa”;
- il diario elettronico è abusato con assegni fuori orario e anche nel week end;
- la didattica a distanza ha cambiato spazi e strumenti ma non i metodi, così i ragazzi sono pressati da verifiche e interrogazioni frontali a mezzo schermo e a mezzo busto!
Nessuno tiene conto del cosiddetto carico mentale dei bambini e delle famiglie che nel frattempo hanno subito l’onda d’urto della pandemia, spesso hanno visto cambiare persino il loro lavoro e il loro assetto economico (che fattivamente può significare meno soldi e più problemi, di quelli da perdere il sonno). Eppure il trascurato carico mentale è un concetto facile facile: immaginate un sacco, se provate a riempirlo oltre la sua capienza, ovviamente, si romperà lasciando cadere tutto. La mente dei bambini e quella degli adulti, mamme comprese, è il sacco; i pensieri, le competenze, le responsabilità, le paure e le emozioni ne sono il carico. Quindi, se riempite troppo il sacco da qualche parte cederà.
Quando la mente cede, la lacerazione emotiva pervade il corpo, porta stanchezza, astenia, indifferenza, a volte rabbia, rancore, disagio e tutto il mondo intorno viene pervaso da quel grigiore triste dell’instabilità. Le mamme e i bambini hanno, oggi più che mai, bisogno di leggerezza, speranza e zone di vuoto da riempire con cose semplici come parlare, impastare una pizza, infornare una torta improvvisata, fare un disegno o guardare un film in televisore davanti a una busta piena di caramelle o patatine.
Ci serve il tempo e la libertà mentale utile per ritornare alla spensieratezza!
Care maestre e cari professori, lasciatevelo suggerire da una mamma come tante, il vostro ruolo non è cambiato, è quello di sempre: siete chiamati ad educare prima che ad insegnare e i bambini non sono sacchi da riempire fino alla lacerazione. In questo periodo storico a salvarci non saranno le nozioni, ma la libertà di pensare ancora al domani e per farlo dobbiamo riportare ciascuno nel proprio ruolo: le mamme non sono maestre, non sono bidelle né tutrici della continuità scolastica dei bambini.
E’ urticante per una madre sentirsi dire dalla maestra che, a fronte del ridotto tempo di lavoro in aula, il pomeriggio deve servire a recuperare ciò che non si può ultimare al mattino. Fatto salvo il comparto delle lavoratrici pubbliche, sia chiaro a tutti che c’è un’ampia fetta di lavoro femminile perduto o contratto. Il dilemma: “Chi mi tiene il bambino?” è stato spesso risolto col sacrificio del lavoro femminile o, addirittura, con una rinuncia ad esso.
Mamme e DaD, c’è un mondo di cose e emozioni che abbiamo perduto
Foto: Fabiana Ponzi/123RF
Noi mamme bidelle, insegnanti, signorine Rottenmeier di Heidi e tecnici informatici, abbiamo perduto il nostro ruolo di supporto rispetto agli apprendimenti scolastici. Come mamme non abbiamo il compito di insegnare e non possiamo essere chiamate a farlo. Non solo non lo abbiamo scelto e non siamo formate, ma nell’equilibrio del bambino la figura dell’insegnante e quella della mamma non possono essere confuse.
Noi mamme non possiamo e non dovremmo essere chiamate in causa durante le lezioni per controllare l’attenzione del bambino o per fare da assistente tecnico-pratico. I bambini, almeno fino alla quarta elementare, dovrebbero essere considerati tutti soggetti fragili e avere diritto alla scuola in presenza: ad essere fragile e bisognosa di tutela è la loro formazione sociale, ovvero la loro crescita, che non si può impiantare sulla base di un rapporto indiretto attraverso un mezzo mediato da uno schermo, da dei tasti e dei microfoni dal suono meccanico.
Come donne, noi mamme abbiamo perso l’evasione: quando un bambino va a scuola o a fare sport o al catechismo non è il solo a sperimentare se stesso, anche la mamma fa pratica col distacco e realizza il suo essere donna oltre il figlio. Non avete idea di quante mamme fatichino nel rientrare al lavoro dopo il parto, quante si adattino pian piano a lasciare il bimbo alle cure dei nonni o della babysitter, ma alla fine del processo c’è una conquista identitaria che fa di noi persone serene, appagate e soddisfatte. E se è serena la mamma è serena tutta la famiglia! Per non parlare del fatto che il con-tenere tutto in casa ha tolto alle coppie moto del loro essere “amanti”, che va al di là dell’essere diventati genitori.
I genitori in smart working, con i figli in DaD e in zona rossa sono emotivamente sbilanciati perché hanno perso l’area di relazione tra partner, l’attenzione è concentrata sui bambini, è massimizzata dalla responsabilità ed è deviata dalla paura. Questo fa male alle famiglie.
Cara DaD, dunque, io ti odio!
Che tu sia DaD scolastica, di danza o Judo, di catechismo o teatro, io non ne posso più della tua invadenza. Hai mangiato lo spazio della casa, la mia casa; hai confuso il mio ruolo di mamma; hai costretto mio figlio a immaginare le persone chiuse in qualche pixel… hai veramente superato il limite di ogni resilienza e tollerabilità!
Alberto Pellai, medico e ricercatore dell’Università di Milano, ha recentemente avanzato l’idea dei cosiddetti gemellaggi familiari: ogni famiglia con figli minori dovrebbe gemellarsi con un’altra che abbia bambini o ragazzi della stessa età. Stringendo un patto di corresponsabilità, queste famiglie gemelle dovrebbero impegnarsi nella tutela della reciproca salute mantenendo comportamenti anti-Covid.
Con questo sistema, ci sarebbero mamme che aiuterebbero altre mamme a venire fuori dal con-tenimento. L’intenzione ultima sarebbe la più nobile: garantire ai figli il mantenimento di relazioni sociali normali e semplici (giocare insieme, incontrarsi, avere spazi condivisi). Questa prospettiva non è molto diversa dalle bolle sociali.
Ove si voglia investire sulla scuola come istituzione e dire finalmente addio alle classi pollaio, anche una classe può potenzialmente diventare una macro bolla di 12\16 alunni. Ed è innegabile che la contrazione del numero di allievi conviventi in aula riduce scientificamente la possibilità di qualunque contagio virale!
Cara DaD, io ti odio!
Non ti condanno per aver cambiato le cose o perché, per abitudine o pigrizia, rivoglio la mia normalità, ma ti detesto perché sei stata trattata con la superficialità di chi, facendo appello allo spirito adattativo delle mamme e dei figli, ci ha tolto i supporti sociali che servono ad essere felici.
E, diciamolo chiaro e tondo, non c’è speranza senza un pizzico di felicità!
Foto apertura: Fabiana Ponzi/123RF