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Quando il femminismo è pop: tra consapevolezza e marketing

Il femvertising non è solo glitter e canzoncine: può cambiare le cose, ma solo se avremo il coraggio di fare discussioni scomode

Il femvertising non è solo glitter e canzoncine: può cambiare le cose, ma solo se avremo il coraggio di fare discussioni scomode

Si accende una nuova luce al neon. Rosa. Fucsia. Forse con qualche parola cazzutissima scritta sopra: Girl Power o Future is Female. Le ragazze del liceo la mettono nelle loro stanze. Le influencer la sfoggiano nei reel su Instagram. "Who run the world? Girls", cantava Beyoncé, che intanto si faceva stampare il merchandising nel Sud-Est asiatico, sfruttando proprio quelle ragazze che racconta di voler emancipare. Siamo in una nuova era, quella in cui il femminismo, finalmente, non è più una parolaccia. È cool, anzi pop: piace, fa cantare e ballare, persino.

Ma non è che per rendere il femminismo così diretto, banale e digeribile, abbiamo smarrito il cuore della lotta? Dov’è finita l’incazzatura giusta che ci siamo allenate a coltivare davanti alle ingiustizie strutturali che permeano la nostra vita? Il femminismo pop è solo marketing? O c’è qualcosa di più? Facciamo il punto.

Il capitalismo rosa

C’era una volta un movimento. Intellettuale, filosofico, sociale. Nato fra le pieghe della storia, il femminismo nasceva per sfidare il patriarcato, scardinare convenzioni, rivendicare diritti. Era difficile, perché faceva paura. E faceva paura, perché aveva ragione. Poi, un giorno, qualcuno lo ha guardato e ha pensato: "Aspetta un attimo, questo femminismo... potrebbe vendere!" Ed eccolo lì: il femminismo pop. Ed è in questa transizione – dalla lotta politica alle cover del cellulare e ai cappellini con la scritta "Feminist AF" – che qualcosa si è irrimediabilmente complicato.

Ma facciamo una distinzione importante. Se il capitalismo si veste di rosa, lo fa in due modi. Così da una parte troviamo il femvertising, ovvero l'uso di messaggi femministi e di empowerment femminile per creare campagne pubblicitarie, e dall'altra c'è il pinkwashing (o anche femwashing), un uso opportunistico e superficiale di tematiche femministe che le aziende scelgono di accompagnare ai propri messaggi promozionali per migliorare la propria brand reputation. Peccato che a questo dispiego di forze e messaggi non corrisponda alcun impegno reale: è solo una tecnica per fidelizzare clienti e aumentare le vendite.

Mentre il femvertising può essere un mezzo genuino per promuovere valori positivi, il pinkwashing evidenzia una strategia di facciata, spesso con conseguenze negative come la svalutazione del movimento femminista stesso. 

Quindi non è tutto da buttare. Anzi, a volte è grazie a queste estetiche pop che molte persone si avvicinano per la prima volta al concetto di uguaglianza di genere. Però il rischio è sempre lo stesso: che il femminismo, invece di essere un movimento di rottura, diventi una trovata di marketing. Un po’ come il Natale nei centri commerciali.

Ma "pop" non è sempre sinonimo di male

Ma non tutto il pop viene per nuocere, anzi. In alcuni casi può rendere il messaggio più accessibile. E nel contesto del femminismo, l'accessibilità non è mica un problema da poco. Se un’adolescente vede Greta Gerwig trasformare Barbie in un manifesto sul patriarcato che riesce a far riflettere milioni di persone (anche chi non aveva mai pensato al patriarcato), possiamo davvero lamentarci?

Il femminismo pop fa una cosa incredibile: prende concetti che per anni sono sembrati distanti, appannaggio di università o salotti pseudo-intellettuali, e ce li serve su un piatto brillante e glitterato. Fa capire a chiunque che è giusto chiedere pari opportunità, che è giusto difendere i diritti delle donne, che è giusto andare contro disuguaglianze e stereotipi. Insomma, rende il femminismo... divertente? O almeno non spaventoso.

Ma qual è il prezzo di questa semplificazione? Possiamo davvero zippare secoli di lotte in uno slogan che si adatti bene a Instagram Stories? O c’è il rischio che, semplificando troppo, perdiamo la sostanza? Una volta che il messaggio si trasforma in trend, viene consumato rapidamente. E quello che dovrebbe essere un cambiamento culturale profondo rischia di diventare una "stagione". E tu sai bene cosa succede alle stagioni della moda: passano.

Smontare il marketing per andare oltre il marketing

Il vero problema del femminismo pop è che, alla fine della giornata, il controllo su questo nuovo movimento sembra essere passato agli stessi big players contro cui, in teoria, stiamo combattendo. Ecco che Zara ti propone felpe "empowering" prodotte da lavoratrici sottopagate, e che lo stesso brand che ti vende un profumo "femminista" raramente ha donne nei ruoli dirigenziali.

Per andare oltre il femminismo pop, non dobbiamo eliminarlo. Dobbiamo usarlo come un punto di partenza, una "porta pop" che sia abbastanza grande e colorata da attirare tutti. Ma poi dobbiamo spalancare quelle porte per coinvolgere, educare, approfondire.

Indossare la maglietta "The Future is Female?" deve diventare il punto di partenza per aprire discussioni scomode. Parliamo di congedo di maternità. Parliamo di disparità salariale. Parliamo di violenza di genere e delle donne che "femministe" non riescono neppure a sognare, tanto sono schiacciate da povertà e discriminazioni. 

Il femminismo non è solo girl power. È anche real power. Il potere di cambiare le regole, di riscrivere il sistema economico, di mettere in discussione gerarchie e privilegi.

Femminismo e pop possono convivere?

La risposta breve: sì. Quella più articolata: dipende. Il femminismo pop può essere utile, soprattutto se lo vediamo come un primo step verso una consapevolezza più profonda. Ma non possiamo fermarci lì. Dobbiamo fare come Barbie (sì, proprio lei): iniziare in un mondo perfetto, luccicante e colorato, ma essere anche disposte a sporcarci le mani e infilarci negli archivi, leggere di chi ha buttato giù muri reali e metaforici. Le suffragette non avevano né neon, né scritte glitter, ma avevano un piano. 

A volte dobbiamo ricordare a noi stesse che il femminismo pop è solo uno strumento, non l'obiettivo finale. Perché il vero futuro non è (solo) femminile. È intersezionale. È un mondo dove rompere gli schemi non è una strategia di vendita, ma un valore condiviso. Possiamo farcela? Dipende. Per sicurezza, lasciamoci alle spalle gli slogan e torniamo a costruire

Foto di apertura: Freepik