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Il ruolo delle donne nella camorra. Intervista all'esperto

Da educatrici e ignare “consumatrici” della ricchezza procacciata dai mariti, hanno conquistato un posto sempre più centrale nei clan. La loro influenza? Passa anche da Tik Tok.

Da educatrici e ignare “consumatrici” della ricchezza procacciata dai mariti, hanno conquistato un posto sempre più centrale nei clan. La loro influenza? Passa anche da Tik Tok.

La camorra non è più solo una cosa da uomini. Per lungo tempo le mogli e madri dei criminali hanno assicurato la sicurezza del “nido”, hanno cresciuto gli eredi, hanno protetto con l'omertà e l'inconsapevolezza simulata i traffici e gli omicidi dei propri uomini. Ma col tempo, complici i pentimenti, gli omicidi e gli arresti, molte donne hanno preso in mano il comando dei clan, dimostrandosi ancora più violente ed efferate dei propri partner. Le comunicazioni tra le cellule dei clan (e non solo) viaggiano anche sui social. Quello preferito? Tik Tok.

Cos'è la camorra

«La camorra, come tutte le organizzazioni criminali di tipo mafioso, è una associazione di delinquenti che si sviluppa tra Napoli, Caserta e altre aree della Campania sin dall’Ottocento e a cui, aggiungerei, lo Stato non ha saputo ancora porre un argine», spiega Paolo Miggiano, giornalista e autore di numerosi saggi sulla camorra. Tuttavia più che parlare di camorra, ormai si parla di camorre, «una variegata gamma di sodalizi criminali distribuiti su tutto il territorio della Campania a secondo degli interessi da sfruttare e con diversificati livelli organizzativi talvolta di tipo familistico e senza un vertice unitario». Quest’ultima caratteristica non si riscontra né nella mafia né nella ‘ndrangheta.

paolo miggiano

Dalla famiglia al lavoro

Come si è osservato per le mafie, anche nelle camorre le strutture sociali in passato erano di soli uomini o almeno così la letteratura sulla mafia le ha descritte. «In realtà le donne all’interno delle organizzazioni criminali hanno sempre avuto un ruolo importante».

Secondo una narrazione che ritengo ormai superata, in passato si è pensato che le donne andavano esclusivamente investite della responsabilità della reputazione e della moralità finalizzata al mantenimento dell’integrità dell’uomo mafioso». Nell’ideologia mafiosa o camorristica le donne andavano dominate, usate e tenute all’oscuro dei segreti, degli affari e dei traffici dei clan.

Tra i primi a documentare il ruolo delle donne nella società meridionale «e, quindi, anche nelle consorterie mafiose», Leonardo Sciascia, che dava un duro giudizio a questa categorie. Sosteneva che «molte disgrazie, molte tragedie del Sud ci sono venute dalle donne […]. Le donne del Mezzogiorno hanno questo di terribile. Quanti delitti d’onore sono stati provocati, istigati o incoraggiati dalle donne! Dalle donne madri, dalle donne suocere. Eccole di colpo capaci delle peggiori nefandezze. […]. Queste donne sono un elemento di violenza, di disonestà e di abuso di potere nella società meridionale […]».

Inserite in un contesto criminale le donne hanno saputo dare spesso il peggio di loro – continua Miggiano – Le donne della camorra spesso non lavorano, ma vivono all’interno delle famiglie, con i guadagni illeciti dei loro uomini. Fanno la bella vita, illudendosi (a volte ingenuamente, ma molto più spesso con estrema consapevolezza) di ignorare la provenienza dei loro guadagni».

Quanto conta la donna nella camorra

Secondo Miggiano la donna nella camorra, oggi più di ieri, ha un ruolo molto importante ed in alcuni casi predominante nella gestione degli affari criminali. «Sarebbero numerosi gli esempi di donne che hanno assunto un ruolo determinante nella gestione dei traffici illeciti, ma anche nel determinare le scelte dei mariti».

Anche per la camorra registriamo casi di donne camorriste che appena i mariti accennavano ad un tentativo di collaborazione dello stato intervenivano con tutta la violenza e la forza per dissuaderli». È il caso della moglie del mafioso Giuseppe Mandarano che venuta a sapere che il marito si era dissociato dalla mafia, si affrettò a distanziarsi dal marito, dichiarando che  non era un pentito ma un infame. O di Antonella Corvino, caso che Miggiano ha trattato in uno dei suoi libri, L’altro casalese.

Il caso Antonella Corvino

Antonella Corvino, moglie di Massimo Alfiero, accusato dell’omicidio dell’imprenditore Domenico Noviello, appresa la notizia che il marito stava per collaborare con la giustizia, intervenne pesantemente per dissuaderlo.

Collaborare con la giustizia, per chi vive in quel mondo lì, un mondo fatto di omertà e reticenze, anche per le donne, significa essere un "infame di merda", come lo definì la moglie nel corso di un colloquio in carcere. Massimo Alfiero, dopo il suo arresto aveva scelto la strada della collaborazione. Una scelta che durò pochi giorni. A fargli cambiare idea ci pensò la moglie. Antonella Corvino, infatti, non aveva per nulla condiviso la scelta collaborativa del marito e si adoperò affinché questi ritornasse sui suoi passi, rientrasse nei ranghi criminali».

Antonella Corvino sapeva bene che erano stati diversi gli omicidi commessi contro i familiari più stretti delle persone che avevano deciso di rompere il proprio legame con il sodalizio criminale e intraprendere una scelta collaborativa con lo Stato. Sapeva che la scelta del marito finiva, inevitabilmente, per esporre sé stessa e i suoi figli a un pericolo di vita. Lei aveva rifiutato la protezione prevista per i familiari dei collaboratori. Era stata avvicinata da esponenti del clan i quali le avevano detto che in conseguenza della scelta collaborativa del marito, sarebbe rimasta senza mezzi di sostentamento assicurati fino a quel momento dal clan e che se il marito non avesse fatto un passo indietro, la sua famiglia ne avrebbe subito le estreme conseguenze. Era, dunque, necessario preservare se stessa e i suoi figli da eventuali ritorsioni da parte del clan, ma bisognava anche fare in modo di non essere considerati infami, disonorati».

In un colloquio con il marito, intercettato dagli inquirenti, Antonella Corvino diceva:

«[...] sto distrutta».

«Tranquilla, lo faccio solo per voi, per la famiglia, per stare con voi».

«[...] non farlo [...] ti penti [...] tu solo [...] e poi ci lasci in mezzo a una via».

Poi la moglie continuava:

« [...] ti sei fatto dire, infame di merda! [...] fallo per le creature! Lasciali fuori da tutto quanto! [...] altrimenti questi ci sputano in faccia. Non lo fare».

Infine, verso la fine del colloquio, Alfiero, disse:

«[...] diglielo che a me può essere che non interessa niente proprio, digli che ho fatto tutto quanto l’importante è che una cosa si può fare se no [...] altrimenti non ce la faccio a farlo».

«Ti fai vent’anni di galera e poi esci», concluse la moglie.

Questa vicenda dimostra che la donna nella camorra ha un peso determinante», aggiunge Miggiano.

napoli

Foto: jakobradlgruber -123.rf

Il caso Annalisa Durante

In un altro libro, Ali spezzate, Miggiano racconta il caso della madre di Salvatore Giuliano, l’ultimo erede del clan Giuliano a Forcella, condannato per aver ucciso Annalisa Durante in un conflitto a fuoco con il clan rivale dei Mazzarella. «Lei ha educato l’altro figlio adolescente a compiere estorsioni e rapine: “Se non sei capace a fare le estorsioni e le rapine – diceva al figlio – non sei buono", dimostrando che la donna ha un ruolo fondamentale nella continuazione del clan e dei suoi interessi».

Da gregarie a protagoniste

Ad un certo punto della storia, il ruolo delle donne è cambiato. Da sottomesse, gregarie, mantenute, sono diventate protagoniste, persino temute perché più violente e prive di scrupoli. «Il ruolo della donna criminale oggi si è fortemente modificato – aggiunge Miggiano – Con l’eliminazione fisica di molti camorristi e con le grandi operazioni giudiziarie che hanno smantellato in parte le organizzazioni, infliggendo numerosi ergastoli, sono stati decimati i vertici delle organizzazioni. Giocoforza, se non si voleva perdere fette di mercato criminale, il testimone doveva passare alle donne che hanno gestito a volte meglio e con altrettante crudeltà ed efferatezza gli affari».

Il ruolo delle donne nella camorra è cambiato: da esseri funzionali al sistema, in quanto madri degli eredi del potere, «da donne vigilate, protette e interdette, considerate di esclusiva proprietà del maschio criminale (al quale andava riconosciuta la doppia morale per la quale può tradire, ma mai essere tradito)», sono diventate imprenditrici criminali e garanti di segreti e di interessi.

Le donne hanno conquistato un ruolo fondamentale nel sistema delle mafie e delle camorre, nel passaggio vissuto dall'economia del latifondo a quella del mercato contemporaneo e delle transizioni finanziarie. Da antica custode del focolare, la donna diviene amministratrice delle ricchezze familiari, assumendo un ruolo di direzione nell’impresa familiare camorristica. «Sono divenute sempre più protagoniste, assumendo un ruolo attivo nella gestione dei clan e come spacciatrici e addirittura come gestrici dei narcotraffici. E tutto ciò con metodi simili e non ancora più spregiudicati di quelli adottati dagli uomini».

Camorre, donne e social network

Secondo Marcello Ravveduto, ricercatore del Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione dell’università di Salerno, intervistato dal Corriere della Sera, i criminali stanno spopolando sui social. Il più amato è Tik Tok. Sembra che un ruolo chiave in questa svolta comunicativa sia giocato proprio dalle donne. Spesso i profili sono cointestati perché, se il marito va in galera, la moglie prende subito lo scettro della comunicazione. È anche il modo per mandare alla propria amata messaggi d'amore come «Sei bella come una questura che brucia».

Lo studio di Marcello, amico di vecchia data e studioso molto serio, mette in evidenza tutta la pericolosità del fenomeno. La sua analisi, a mio avviso, pone l’accento non solo sulle questioni criminali, ma indirettamente sulla necessità di un intervento del governo su questo tipo di comunicazione, senza ledere la libertà dei cittadini, ma incidendo su quelle che potrebbero configurarsi come fattispecie di reato o istigazione a compierlo».

I rischi di questo switch di piattaforma sono enormi. «Citando un altro studioso, mio docente di criminologia, Francesco Sidoti, nel suo libro La cultura dell’investigazione scrive: “Per alcuni anni si è pensato che il villaggio globale fosse una sorta di villaggio nel quale ogni sera era un sabato sera dove non solo era possibile un maggior controllo della devianza, ma dove l'idea di devianza poteva essere sostituita con l'idea di diversità. Dopo l’avvento del nuovo disordine mondiale è accaduto che gli stessi inventori della metafora del villaggio globale hanno dovuto cambiare idea e considerarlo come una sorta di villaggio assediato e senza sceriffo”.».

Lo studio di Ravveduto mette in luce come il villaggio globale mafioso è meglio governato dalle donne. «Attrae proseliti tra i giovani e tra le giovani proprio perché il crimine svolge da sempre la sua funzione fascinatoria per coloro che sono privi di strumenti di decodificazione dei messaggi», aggiunge Miggiano.

Le donne simbolo della camorra (e anticamorra)

Nel corso dei decenni molte donne sono assurte a simbolo della vita camorristica: da Pupetta Maresca a Rosetta Cutolo, da Celeste Giuliano a Cristina Pinto (Nikita). «A me piace ricordare i nomi delle donne anticamorra, donne che resistono come Lucia Di Mauro, moglie di Gaetano Montanino, la guardia giurata che non piegò la testa quando gli emissari del clan si presentarono, pistola alla mano, per sottrargli le armi di ordinanza. Mi piacerebbe citare la mamma di Annalisa Durante, Mimma e Matilde Noviello, che sulla scia dell’insegnamento paterno, lottano ogni giorno per una società migliore». L'elenco è lungo: sono tante le donne contro, che lottano e resistono.

Foto apertura: Sakhorn Saengtongsamarnsin -123.rf