Nelle Marche l’accesso all’aborto è diventato un calvario. Colpa di un tasso altissimo di obiettori e di una giunta di Destra dichiaratamente pro-vita che impedito la somministrazione della Ru486 nei consultori. Per non parlare dei servizi sospesi durante la pandemia. Il punto con Non Una di Meno.
Nelle Marche l’accesso all’aborto è diventato un calvario. Colpa di un tasso altissimo di obiettori e di una giunta di Destra dichiaratamente pro-vita che impedito la somministrazione della Ru486 nei consultori. Per non parlare dei servizi sospesi durante la pandemia. Il punto con Non Una di Meno.Chi decide dei corpi delle donne?
La risposta dovrebbe essere ovvia: le donne stesse. Eppure non è così: è la politica che si permette di farlo, spesso fregandosene delle leggi e persino delle linee guida del Ministero della Salute.
Sto parlando del diritto all’aborto, sancito dalla 194/78 che in Italia, nonostante abbia quarant’anni suonati, è sotto attacco da tempo per “merito” della destra che cerca di farci tornare indietro in tema di diritti riproduttivi. In alcune regioni la situazione è più critica: le Marche sono una di queste. E negli ultimi mesi le cose sono precipitate.
Il 26 gennaio il Consiglio Regionale ha respinto una mozione del Partito Democratico che chiedeva di rispettare le linee guida del ministero della Salute che aprivano alla possibilità di somministrare la pillola abortiva Ru486 anche nei consultori. La Ru486, o mifepristone, è un farmaco che permette di effettuare una IVG (interruzione volontaria di gravidanza) farmacologica, evitando quindi quella chirurgica. Si assume per via orale, non richiede anestesia né ospedalizzazione indispensabile, ed è quindi meno invasiva. Approvata dall’Aifa in Italia nel 2009, nonostante le linee guida del ministero della Salute nel 2020 abbiano sancito una volta per tutte la sicurezza dell'aborto farmacologico, nelle Marche il centrodestra ha pronunciato un secco “no” alla sua somministrazione nei consultori.
L’aborto deve essere sofferenza
Perché fare la guerra a questo farmaco? La questione è prettamente culturale: si crede ancora che una donna che sceglie di abortire in fondo abbia una colpa da espiare che prevede quindi un iter di dolore e sofferenza non compatibile con una pillola abortiva. Troppo semplice, troppo leggero.
La narrazione dell’interruzione volontaria di gravidanza nel nostro Paese è drammatica e colpevolista, e il caso Marche rappresenta oggi la punta di un iceberg. All’interno della Giunta di centrodestra, c’è una sola donna: Giorgia Latini, assessora alla Cultura, Istruzione e Pari Opportunità della regione guidata da Francesco Acquaroli.
L'unica assessora è anti-abortista
Anti-abortista dichiarata perché - come ha detto lei stessa - non abortirebbe mai, si schiera “sempre e comunque a favore della vita e della maternità”, sostenendo che non si tratti di un tema religioso ma di “etica umana”. Quello che le sta a cuore è un piano per promuovere la natalità, sostenendo economicamente le donne in gravidanza (le altre, invece?). Sullo stesso filone troviamo Carlo Ciccioli, capogruppo di Fratelli d’Italia che ha avanzato una proposta di legge a “sostegno di famiglia, genitorialità e natalità” dedicata soltanto alle coppie “tradizionali”, definendo il diritto all’aborto una “battaglia assolutamente di retroguardia, perché oggi la battaglia da fare è quella per la natalità”. In consiglio regionale ha persino parlato di “sostituzione etnica in atto” perché gli italiani fanno sempre meno figli, a differenza degli stranieri.
Aborto paragonato a pedofilia e olocausto
Come se non bastasse, in questo contesto già angosciante, a San Benedetto del Tronto sono apparse persino vele pubblicitarie che recitano “Il nuovo Olocausto è l’aborto”: parole a caratteri cubitali affisse su un camion e volute da un’associazione pro-life che ha definito l’aberrante operazione “un’opera culturale e di preghiera per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla grave deriva etica e morale seguita in Italia dall’introduzioni di leggi ingiuste ed inique quali quella sull’aborto”. E non è ancora tutto: a novembre 2020 le attiviste marchigiane scesero in piazza dopo aver sentito dire dal vicario del vescovo di Macerata, don Andrea Leonesi, che l’aborto è più grave della pedofilia.
Su 137 ginecologi, 100 sono obiettori di coscienza
Insomma, nelle Marche, dove già l’obiezione di coscienza è altissima e quindi le possibilità di ricorrere a una IVG sono drasticamente ridotte, il diritto all’aborto è considerato inutile da figure come quelle di Latini e Ciccioli. Un’indagine condotta dai sindacati Cgil, Cisl e Uil ha rivelato che su 137 ginecologi ospedalieri, 100 sono obiettori di coscienza. E che nelle Marche soltanto il 6% delle IVg viene effettuato con la pillola abortiva: per capirci, la media italiana è pari al 21% mentre Paesi come la Svezia toccano il 97%.
Non una di meno Marche in piazza l'8 marzo
“Da noi le cose andavano male già da anni, ma sono precipitate da quando abbiamo una giunta di destra, quindi ci aspettavamo attacchi ai diritti riproduttivi e della salute delle donne”, mi dice Marte Manca, attivista di Non Una di Meno Transterritoriale Marche, raccontandomi l’excursus oscurantista degli ultimi mesi, dalla dichiarazione del sacerdote al blocco della Ru nei consultori bocciando la mozione del Pd. Un’escalation che vedrà le donne marchigiane protestare dalle 10 alle 12 lunedì 8 marzo, Giornata Internazionale della donna, davanti alla sede della Regione, luogo simbolo dell’attacco ai nostri corpi. Perché l’IVG nelle Marche si effettua soltanto in cinque strutture: e l’aborto farmacologico in tutta la regione è consentito solo in tre: Urbino, Senigallia e San Benedetto del Tronto (dove però era sospeso causa Covid). Un quadro già profondamente critico, decisamente peggiorato con l’arrivo della pandemia.
Il calvario di abortire in pandemia
I consultori, mi racconta Marte, nei mesi di lockdown erano tutti irreperibili, rispondevano una volta sola a settimana per due ore, quando i centralini erano aperti. “Per chi doveva effettuare una IVG la situazione era davvero difficoltosa. Pensa che a Porto Sant’Elpidio una ragazza denunciò di essere stata respinta al consultorio con la motivazione che aveva già affrontato una IVG sette mesi prima”. Da quell’episodio le attiviste di Non Una di Meno hanno deciso di fare una mappatura dei punti IVG per tutte le donne della regione. “Così ci siamo rese conto che i consultori sono la maggior parte pro-vita. Per esempio, tra marzo e maggio 2020 in piena pandemia l’ospedale di Macerata non effettuava aborti: l’alternativa era Urbino, a tre ore di viaggio in pieno lockdown”.
Mappa degli ospedali che effettuano IVG nelle Marche. Bollino verde: garantiscono IVG chirurgiche e farmacologiche, giallo: garantiscono solo IVG chirurgiche. Rosso: non garantiscono IVG. Foto: Non Una di Meno Marche
Il diritto di avere accesso all'IVG, non a 50 km da casa
Marte vive in un paesino dove i medici di base sono tutti obiettori. “Ho effettuato una IVG dieci anni fa”, mi racconta, “e dovetti andare da un privato per ottenere il certificato che nessuno voleva rilasciarmi. Sono dovuta andare in sei ospedali diversi arrivando all’ultima settimana possibile per l’IGV”. Un’interruzione di gravidanza ha dei tempi precisi ed è inaccettabile si rischi di oltrepassarli e di non poter più esercitare la propria scelta per negligenza della propria regione. La gravità della situazione le fu chiara allora, era il 2011. Spaventoso constatare che in dieci lunghi anni le cose non sono affatto migliorate. Mancano le strutture adeguate a garantirla, e gli obiettori sono la stragrande maggioranza. “Non è l’IVG che stressa le donne, come sostengono gli anti-abortisti, è il sistema a farlo. Quando una donna prende questa decisione deve poter aver accesso all’aborto, e non a 50 chilometri da casa”, ricorda l’attivista Nudm.
Se difendere la vita vale solo per gli embrioni
Anche l’Umbria sta facendo dietrofront rispetto ai diritti riproduttivi: a giugno 2020 la giunta di centrodestra, guidata dalla governatrice leghista Donatella Tesei, ha stabilito che l’aborto farmacologico non sarebbe più potuto avvenire in day hospital: le donne che sceglieranno la Ru486 devono sottoporsi a tre giorni di ricovero in ospedale, sempre per la serie “abortirai con dolore”, o comunque te la faremo pesare. Del resto cosa ci si può aspettare da un partito, la Lega, il cui leader Salvini a febbraio 2020 ha offeso tutte le donne affermando che prendessero i “pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile”? Cosa ci si può aspettare da chi si professa pro-vita scegliendo di difendere un embrione ma non un bambino migrante che rischia di morire in mare? La verità, celata dietro una sfacciata ipocrisia, è molto più semplice: a 43 anni dalla legge 194, pretendono ancora di controllare i corpi delle donne, di decidere al nostro posto in nome di un’etica che si dovrebbe trovare il coraggio di chiamare “inciviltà”. Loro non si rassegnano, ma neanche noi.
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