Intervista alla regista e drammaturga siciliana, che da un anno non può mettere in scena i suoi spettacoli a causa della pandemia: «Lo streaming? È solo un palliativo».
Intervista alla regista e drammaturga siciliana, che da un anno non può mettere in scena i suoi spettacoli a causa della pandemia: «Lo streaming? È solo un palliativo».Emma Dante è una delle registe e drammaturghe italiane più apprezzate del nostro Paese. Nata in Sicilia e attiva da oltre 30 anni, ha una sua compagnia dal 1999, la Sud Costa Occidentale, e da sempre dedica grande attenzione ai temi sociali, alla condizione della donna, alle dinamiche familiari, il tutto in un teatro di ricerca, fatto di immediatezza comunicativa basata su ritmo, linguaggio e uso del dialetto. È anche scrittrice e regista cinematografica: ha infatti diretto Via Castellana Bandiera, tratto dall’omonimo romanzo da lei scritto, e Le sorelle Macaluso, trasposizione di una sua opera teatrale.
Conosciuta anche all’estero, come tutte le sue colleghe Emma Dante è però praticamente ferma da un anno. Sempre al lavoro, sia chiaro, con in testa nuovi progetti, ma senza quell’habitat naturale che per lei è il teatro. Inteso come luogo fisico e dell’anima. Chiuso, come le porte di cinema, musei e di tutti i posti in cui si fa arte. L’abbiamo intervistata in occasione del 27 marzo, data in cui dal 1962 viene celebrata la Giornata mondiale del teatro.
Giornata mondiale del teatro, senza teatro. Come ci si sente?
È da un anno che ci si sente orfani, abbattuti, depressi. Ci si sente male, perché senza teatro, senza arte, non si capisce la vita e lentamente si muore. Non c’è altra risposta possibile. È una mancanza che comincia a essere un peso importante nella vita delle persone.
Non solo di chi lo fa, insomma.
Parlo anche per il pubblico, per l’importanza che ogni gesto artistico ha per gli spettatori, che hanno bisogno di elaborare questa terribile tragedia che stiamo vivendo. Senza i luoghi dell’arte si diventa miseri.
I teatri avevano riaperto?
Sì, il 15 giugno, ma sono rimasti aperti per soli tre mesi.
Come si sopravvive senza teatro, intendo dal punto di vista economico?
Io non ho avuto ristori essendo libera professionista, però il mio lavoro sarà comunque assicurato nel futuro, quando i teatri riapriranno. C’è gente che invece probabilmente non ricomincerà, non essendo nella condizione privilegiata in cui mi trovo io. Al di là dei soldi e delle famiglie che si sono ritrovate in grave difficoltà economica, perché i ristori non sono stati questa grande cosa, ripeto, la cosa più importante è che ci è venuto a mancare il nutrimento, l’ospedale dell’anima. Ci siamo ritrovati senza una cura e questo ci ha impedito di crescere, anche come cittadini.
Il teatro per lei è più che un semplice intrattenimento.
Per me l’arte non ha niente a che vedere con l’intrattenimento. Ha a che fare con lo “scavo”, l’approfondimento che ognuno di noi deve fare dentro sé stesso e nel mondo che lo circonda.
Ha dato vita a progetti alternativi, tipo il teatro in streaming?
Sono contraria allo streaming e non ho accettato alcuna proposta in tal senso. Non lo ritengo corretto nei confronti del teatro, che non credo si possa fare attraverso lo schermo. Lo streaming è solo un palliativo, assolutamente non in grado di sostituire gli spettacoli con il pubblico in sala.
Questo pensiero è legato al suo modo di concepire il teatro, molto dinamico?
No, con lo streaming manca proprio la condivisione. È un’esperienza solitaria e sterile, qualsiasi tipo di teatro va fatto dal vivo. È un’arte che nasce e muore nel momento in cui accade, e che quindi non si può vedere al computer.
Al momento avrebbe dovuto essere a Firenze, con il suo ultimo spettacolo Misericordia. Di cosa parla?
Misericordia ha debuttato l’anno scorso al Piccolo di Milano ed è stato in scena un mese, fino al lockdown. È la storia di tre donne, che fanno le prostitute e che adottano un bambino disabile nato dalla violenza subita da una loro compagna, uccisa dall’uomo che l’aveva messa incinta. Questo ragazzino resta con queste tre madri adottive: è uno spettacolo sulla maternità, sulla prostituzione, sulla povertà e soprattutto su questo tentativo di integrazione e pietà nei confronti di un orfano, amato e accudito in una situazione di estremo degrado.
Ha dichiarato: "Non faccio un teatro politico, ma ho messo in atto delle denunce sociali. Il mio teatro ha a che fare con le inciviltà del mondo"
Mi viene naturale, l’ho sempre fatto. Racconto quello che vedo, cercando di portarlo alla luce e di esplorarlo. Non riuscirei a fare altrimenti, non potrei realizzare un progetto diverso, senza l’approfondimento di situazioni legate all’emarginazione, ai disagi che possono avere i piccoli nuclei sociali, famiglia compresa. Sono sempre partita da qui per esplorare il mondo.
A proposito di famiglia, durante la pandemia sono aumentati i casi di abusi domestici.
Non mi ha sorpreso, so che queste cose esistono. La violenza domestica è una maledizione che non sappiamo come gestire. Le donne che vengono continuamente vessate e minacciate hanno difficoltà a denunciare, a diventare “eroine”. In certi contesti c’è solo il forte che prevarica il debole. Se si sta un anno interi chiusi in casa, è ovvio che questa violenza si acuisce, per cui si verificano più episodi di maltrattamenti e femminicidi.
Il suo ultimo libro, E tutte vissero felici e contente (illustrato da Maria Cristina Costa), è una rilettura delle favole, rivedute e corrette contro gli stereotipi del patriarcato.
Le favole che tutti conosciamo, rilette in un certo modo, ci aiutano a ridefinire un’etica, una morale, a riscrivere concetti antichi ma soprattutto obsoleti, che non riusciamo a rendere contemporanei. E tutte vissero felici e contente vuole mettere a fuoco la condizione della principessa, che se la cava anche senza il principe.
La pandemia cambierà il teatro?
Spero di no. Cambieranno i contenuti, sicuramente scriveremo delle storie che avranno a che fare con quello che abbiamo vissuto: i silenzi delle città, le strade deserte, il dolore… La pandemia influenzerà il nostro percorso di artisti, però mi auguro continuerà a essere ciò che è da secoli. Anzi, dall’inizio dell’esistenza dell’uomo e della donna.
Sta già lavorando a qualcosa?
Sì, ho cercato di continuare a interrogarmi e quindi sicuramente ci sono dei “semini”. Vediamo quale pianta nascerà.
Fa da sempre un teatro sperimentale, di ricerca. Ma qual è il suo classico preferito?
Non saprei, però posso dire qual è stato il primo spettacolo che ho visto al Teatro Greco di Siracusa, con la scuola: una rappresentazione dell’Antigone. Non ricordo di chi fosse la regia. Ma è stato il primo a cui assistito e che mi rimarrà impresso per tutta la vita.