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Fast fashion: guida ai marchi da evitare

Proviamo a dire addio al fast fashion: guida ai brand da evitare e consigli per un guardaroba sostenibile.

Proviamo a dire addio al fast fashion: guida ai brand da evitare e consigli per un guardaroba sostenibile.

Il mondo della moda è un universo in continua metamorfosi, dove le tendenze si susseguono a una velocità vorticosa e i consumi diventano sempre più frenetici. Il fast fashion, fenomeno ormai globale, rappresenta con i suoi marchi l'emblema di questo cambiamento radicale nel modo di concepire l'abbigliamento e il consumo. Un sistema complesso che ha rivoluzionato l'industria tessile, sollevando questioni etiche, ambientali ed economiche di estrema rilevanza.
Se fino a pochi anni fa le collezioni di un brand di moda erano al massimo quattro (primavera/estate, autunno inverno, cruise e pre-fall), i marchi del fast fashion prima, e ultra fast fashion oggi, ci hanno abituati a trovare online e nei negozi 52 collezioni, una per ogni settimana dell’anno. Sono spaventosi i numeri (e le conseguenze ambientali) di questo fenomeno: ogni anno vengono immesse sul mercato decine di migliaia, e in certi casi addirittura centinaia di migliaia di capi. Un ritmo parossistico e insostenibile, ma anche senza senso: non abbiamo bisogno di tutti questi vestiti.
Anche in questo scenario ci sono, però, delle buone notizie. Ogni volta che ci approcciamo al cambio armadio, anzi ogni volta che facciamo (o scegliamo di non fare) shopping, le nostre decisioni di acquisto hanno un impatto su questo sistema. Che si tratti di creare un capsule wardobe minimalista, di acquistare moda second hand oppure di indirizzarci su marchi non fast fashion, le nostre scelte contano. Uno dei primi step da compiere in questo percorso di consapevolezza, comunque, è avere ben chiari quali sono i brand fast fashion da evitare, la cui impronta ecologica e le cui condizioni di lavoro non sono sostenibile. Scopriamoli insieme per poi capire meglio le motivazioni per le quali la moda veloce deve uscire dal nostro guardaroba.

Fast fashion: marchi da evitare

Marchi fast fashion da evitareFoto: Freepik

Non tutti i marchi fast fashion nascondono le stesse criticità, ma molti di loro si distinguono in negativo per un approccio di mercato che solleva più di qualche perplessità sotto il profilo della moda poco etica. Vi proponiamo una lista ragionata di brand fast fashion che sarebbe meglio evitare, se avete a cuore la sostenibilità e i diritti umani.

Shein

Partiamo subito dal colosso digitale dell’ultra fast fashion, che ha trasformato lo shopping in un'esperienza quasi ossessiva. Quello dell’azienda cinese Shein è un impero nato dai social, che propone migliaia di nuovi capi ogni settimana a prezzi incredibilmente bassi. Dietro l'apparente convenienza si cela un meccanismo che spinge al consumo compulsivo, dove la sostenibilità è solo un optional dimenticato.

Zara

Tutti sappiamo come il brand spagnolo sia maestro nel portare i trend dalle passerelle agli scaffali in tempi record, e proprio per questo motivo (oltre che per i prezzi bassi) quasi tutti abbiamo nel nostro armadio uno o più capi di Zara. Il suo modello racconta di una produzione frenetica di capi che cambia letteralmente ogni settimana, mettendo a dura prova risorse umane e ambientali.

H&M

Uno dei brand più economici tra le catene di fast fashion “tradizionali”, un po' come il punto di riferimento di ciò che, oggi, non vorremmo più vedere nel mondo della moda. Nonostante gli sforzi di comunicazione green (H&M è stata una delle prime aziende a introdurre capi in cotone biologico e in poliestere riciclato), continua a rappresentare un sistema che privilegia la quantità alla qualità, il momentaneo al duraturo.

Primark

L’arrivo in Italia di Primark, qualche anno fa, era stato accolto con un certo hype. Stiamo parlando di un brand che ha fatto dei prezzi stracciati la sua bandiera: capi che costano meno di una pizza, ma il cui "risparmio" nasconde un costo sociale ed ambientale tutt'altro che irrilevante. Un modello che riduce la moda a un oggetto usa e getta. 

Bershka

Pensato per i giovani, il marchio Bershka (che fa parte del gruppo Inditex, lo stesso di Zara) parla il linguaggio delle tendenze istantanee, intercettando i desideri di una generazione abituata al "tutto e subito" e traducendoli in capi destinati a durare quanto un trend su TikTok.

Mango

Anche se la spagnola Mango ci prova, davvero, a presentarsi come un brand più attento, i suoi tentativi di sostenibilità sembrano più degli esercizi di comunicazione che reali cambiamenti strutturali. Un po' come chi promette innovazione ma poi continua a seguire vecchi schemi di produzione, senza un reale impegno verso un cambiamento significativo.

Pull&Bear

Altro marchio del gruppo Inditex che affolla i centri commerciali italiani. I capi colorati e trendy di Pull&Bear ci attirano con prezzi accessibili, ma dietro quel cartellino da 12,99 euro si nasconde una filiera produttiva problematica. Il brand aggiorna le collezioni a ritmo vertiginoso e, nonostante qualche timida iniziativa green, resta imprigionato in un modello di business che promuove l'iperconsumo e la cultura dell'usa-e-getta, dove l'abito che compriamo oggi sarà già "fuori moda" nel giro di pochi mesi. 

Fast fashion: marchi italiani a cui dire “no”

L'Italia, culla dell'alta moda e del "fatto a mano", non è purtroppo immune dalla febbre del fast fashion. Anche nel nostro Paese sono nati e cresciuti marchi che hanno abbracciato la filosofia della produzione rapida e a basso costo. Questi brand italiani spesso seguono le stesse logiche produttive dei giganti internazionali: collezioni che si rinnovano a ritmo serrato, prezzi competitivi e una qualità che lascia a desiderare. Vediamo insieme quali sono i principali marchi italiani di fast fashion e perché meritano una riflessione prima dell'acquisto.

OVS

Il gigante veneto, costola del gruppo Coin, ha fatto della produzione di massa il suo core business. Il brand nasce come Oviesse negli anni ‘70: ribrandizzato OVS, copre oggi praticamente tutte le fasce d'età, dai bambini agli adulti, e la sua presenza è capillare in tutta Italia. Nonostante alcuni timidi tentativi di sostenibilità, resta un punto critico nel panorama del fast fashion italiano.

Piazza Italia

Questo marchio napoletano ha colonizzato centri commerciali e vie dello shopping con la sua proposta ultra-economica di abbigliamento low cost. ‘Nu jeans e ‘na maglietta, così cantava Nino D’Angelo in un musicarello degli anni Ottanta, ma nel caso di Piazza Italia, un paio di jeans a 15 euro e una T-shirt a meno di 5 euro raccontano già molto della filosofia produttiva del brand . Dietro questi prezzi stracciati si nasconde una filiera produttiva che privilegia la quantità sulla qualità, con materiali che spesso non resistono oltre pochi lavaggi. Le vetrine in continuo cambiamento invitano a comprare senza pensarci troppo, mentre le promozioni stimolano acquisti impulsivi di capi che probabilmente si riuscirà a indossare solo un paio di volte.

Terranova

Ha conquistato il mercato con proposte giovani e prezzi concorrenziali. Dietro l'apparente "italianità", però, si nasconde una produzione per lo più delocalizzata in Paesi in cui la manodopera costa pochissimo. I capi Terranova attraggono per le grafiche trendy e i colori vivaci, ma la qualità dei tessuti racconta di un ciclo di "compra-usa-butta" che è l'antitesi della sostenibilità.

Calzedonia Group

Il grande gruppo italiano dell’intimo (che include, oltre a Calzedonia, anche Intimissimi e Tezenis), ha fatto fortuna con la produzione di massa di intimo, calze e costumi, anche grazie alla scelta di testimonial prestigiosi. La realtà produttiva, però, è ben diversa, a partire dalla delocalizzazione in Paesi come lo Sri Lanka, dove i costi del lavoro sono nettamente inferiori. Se non altro, Calzedonia è trasparente nel descrivere la propria filiera produttiva: sul sito del brand si può approfondire la sua supply chain e c’è una overview degli stabilimenti produttivi.

Lo scenario attuale del fast fashion: un mercato globale da ripensare

Scenario attuale fast fashionFoto: Unsplash - amr_taha

Fin dagli anni ‘90, il fast fashion è diventato un vero e proprio modello economico che ha ridefinito le regole della fashion industry. I principali marchi, a livello internazionale e locale, hanno progressivamente conquistato quote di mercato enormi, proponendo collezioni che si rinnovano con cadenza settimanale, quasi giornaliera, creando un meccanismo di obsolescenza programmata dei capi. Questo modello si basa su una logica perversa: produrre sempre di più, sempre più velocemente, sempre più a buon mercato. Un meccanismo che alimenta un circolo vizioso di consumo compulsivo, dove l'abito diventa un oggetto "usa e getta", privo di qualsiasi valore duraturo.

L'impatto ambientale del fast fashion

Impatto ambientale fast fashionFoto: Unsplash - flenguyen

Avete mai osservato un vestito da 9,99 euro e vi siete chiesti: "Come è possibile?". Il fast fashion è un meccanismo complesso di sfruttamento globale, dove il prezzo bassissimo di un capo si rivela essere un prezzo troppo alto per il nostro pianeta e una minaccia concreta per l'ambiente. L'industria tessile è infatti diventata uno dei settori più inquinanti a livello globale, con conseguenze che toccano ogni aspetto del nostro ecosistema. La produzione massiva genera conseguenze catastrofiche che vanno ben oltre la semplice immaginazione:

  • La produzione di capi è letteralmente fuori controllo
  • Enormi quantità di tessuti vengono gettate ogni anno
  • I capi invenduti vengono smaltiti (e in molti casi bruciati) entro brevissimo tempo
  • Il consumo di risorse idriche è a dir poco spaventoso
  • Pochissimi materiali vengono effettivamente riciclati (a dispetto delle campagne di greenwashing messe in atto da molte aziende)

Questo schema rappresenta un vero e proprio grido d'allarme per il nostro ecosistema. Un monito chiaro e inequivocabile sulla necessità di cambiare radicalmente approccio. E i consumatori possono sicuramente fare qualcosa: evitare i marchi fast fashion a favore di realtà più sostenibili ed etiche.

Ma bisogna fare attenzione alle proprie scelte: molti marchi utilizzano infatti tecniche di comunicazione che mascherano la realtà. Il greenwashing è diventato uno strumento di marketing subdolo, dove piccole iniziative sostenibili vengono ingigantite per nascondere pratiche complessivamente poco etiche. E questo accade anche nel mondo della moda.

Fast fashion greenwashingFoto: Unsplash - markusspiske

Consigli pratici per un guardaroba consapevole senza i marchi del fast fashion

Come possiamo concretamente muoverci verso un consumo più responsabile evitando di acquistare capi dei marchi fast fashion? Ecco alcuni suggerimenti pratici:

  • Privilegiare il più possibile la qualità rispetto alla quantità
  • Prestare attenzione ai materiali e al Paese di produzione indicato in etichetta
  • Scegliere brand che dimostrano di essere trasparenti
  • Considerare l'acquisto di capi second-hand o vintage
  • Imparare a riparare e valorizzare i capi che già si possiedono
  • Seguire brand emergenti che puntano sulla sostenibilità
  • Partecipare a workshop e incontri sulla moda etica
  • Informare e sensibilizzare il proprio network.

Il vero cambiamento non arriverà dalle aziende, ma da noi: per questo è importante diventare consumatori sempre più esigenti. Ogni acquisto è un voto, ogni scelta un messaggio che possiamo lanciare al mercato globale. Il fast fashion e i suoi marchi non sono solo un problema di stile, ma di etica globale. È arrivato il momento di fare la differenza, un capo alla volta, con consapevolezza e determinazione.