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Womsh, Gianni Dalla Mora: «La moda etica? Una cosa da fighi»

Il creatore dell'azienda di scarpe sostenibili punta a una maggiore sostenibilità per i suoi prodotti. L'arma vincente contro il fast fashion? La comunicazione.

Il creatore dell'azienda di scarpe sostenibili punta a una maggiore sostenibilità per i suoi prodotti. L'arma vincente contro il fast fashion? La comunicazione.

Quando sua figlia Francesca gli ha detto «Papà, non posso più indossare le tue scarpe perché sono fatte di pelle», Gianni Dalla Mora ha capito che bisognava cambiare marcia. Vegetariano convinto, nel 2014 ha creato Womsh, azienda di calzature sostenibili da sempre attenta all'ambiente e alla moda che rispetta i propri operatori e le loro condizioni di lavoro e di vita. Abbandonare del tutto le componenti animali è stato un passaggio naturale. Oggi la sua azienda, che ha sede a Vigonza, in provincia di Padova, punta a chiudere un 2020 difficile con un fatturato da 2 milioni di euro e una missione: la moda etica non deve essere una cosa da fricchettoni e ambientalisti. Deve essere una cosa da fighi.

Gianni Dalla Mora, com'è nata l'idea di produrre sneakers vegane? È stata solo una risposta a una richiesta del mercato oppure c'è stato un episodio scatenante?
Tutto è nato dalla richiesta di Francesca, una delle mie tre figlie, che tre anni fa mi ha detto: «Papà, non posso più indossare le tue scarpe perché sono fatte con pelle animale». Questo episodio ha rafforzato una convinzione che già c'era, insieme a una richiesta del mercato. Sono fortemente convinto che bisogna ridurre il consumo di carne e tutto ciò che comporta. Da vegetariano convinto, spero presto che la pelle animale possa diventare una carenza. Farà bene agli animali ma anche all'ambiente.

Come si è avvicinato al mondo delle calzature sostenibili?
Lavoro e vivo in questo mondo da sempre. I miei avevano dei negozi ed è lì che ho imparato ad amare questo prodotto, mentre davo una mano. Dopo gli studi, ho aperto una mia società di rappresentanza e di consulenza nel mondo del fashion. Nove anni fa mi è venuta voglia di mettere in fare un progetto che riguardasse un marchio mio e che rappresentasse le mie visioni tecniche ed estetiche, ma anche sociali, tutte incarnate da uno specifico prodotto. Nel 2014 si è concretizzata l'idea di Womsh.

Quanti siete in azienda?
Il nostro team è molto snello. Non abbiamo un calzaturificio: ideiamo i prodotti ed esternalizziamo tutte le operatività non strettamente necessarie al marketing e alla comunicazione. In sette gestiamo amministrazione, customer service e marketing. Logistica, produzione e gestione digital del sito e delle piattaforme di vendita sono affidati a collaborati esterni.

La previsione di fatturato per il 2020 è di 2 milioni di euro: l'informazione è confermata?
Se non ci fosse stato il lockdown, avremmo potuto arrivare anche a 2,5 milioni. Le vendite primaverili sono andate bene. Ora stiamo recuperando un po' quello che non abbiamo venduto in autunno.

50% etica, 50% estetica (e 100% made in Italy): questa è la ricetta alla base delle Womsh. Cosa significa?
L'asset fondamentale per me era il Made in Italy. Sono fermamente convinto che sia un valore molto importante a livello comunicativo e di marketing. Avere una filiera corta e controllata, sapere chi fa le mie scarpe, in che condizioni sociali e ambientali si trova chi le lavora è importantissimo. Non posso parlare di sostenibilità se le mie scarpe vengono dall'altra parte del mondo o se viene mal pagato o vive in condizioni malsane chi lavora. La sostenibilità non è solo una questione ambientale, ma è strettamente interconnessa con lavoro, umanità, economia e rispetto per la natura.

Come nasce una scarpa Womsh?
Si parte quasi sempre da un'analisi di mercato per estetica e funzionalità. L'estetica è proposta dallo stilista. Si analizza ciò che manca nella collezione. Poi si fa ricerca sui materiali alternativi e sui parametri di produzione che possano abbassare l'impatto ambientale del nostro lavoro. Accettiamo che non esista la scarpa sostenibile al 100 per cento, ma sappiamo che si può ancora fare tanto. Il processo è in progress e ogni tipo di materiale può essere migliorato. È fondamentale che siano prodotti fatti bene, che siano belli e che abbiano un'alta qualità.

Qual è il messaggio veicolato in una Womsh?
Non bisogna rinunciare a un buon prodotto per fare sostenibilità. La componente estetica e ludica che caratterizza la moda da sempre, deve essere un veicolo per far arrivare il messaggio etico di fabbricazione dei nostri prodotti.

Sneakers vegane in apple skin: com'è nata questa idea?
L'idea è nata perché le prime scarpe vegan erano sì animal free, ma non sostenibili. Fatte in PVC, contenevano ancora troppi materiali di derivazione petrolifera. Poi ho scoperto il progetto Frumat. Un ingegnere altoatesino aveva scoperto che utilizzando gli scarti delle mele si poteva realizzare un materiale del tutto simile alla pelle. Il materiale è composto al 25 per cento di poliuretano, unito a cotone e polvere di bucce di mela. Mi son detto che questo era il passo che bisognava fare verso la sostenibilità.

Come andò con il prodotto Frumat?
La prima produzione di scarpe vegane fatte con la apple skin è andata male. Si rompevano. È stato un semi dramma: abbiamo dovuto fermare le produzione e ritirare dal mercato ciò che c'era. Rifare i test, rifare tutto da capo. Ora la linea vegan è quella più notiziabile.

Miglioramenti da fare per la Womsh apple skin?
L'ideale sarebbe quello di arrivare a fare un materiale totalmente vegetale. Al momento il poliuretano c'è sempre. Di completamente naturale per ora ci sono solo cotone e canapa ma, con dei materiali così, bisognerebbe fermarsi solo all'estetica.

Womsh fa solo scarpe vegane?
No, ma fabbrichiamo solo scarpe sostenibili. Non compreremo mai pelle di animali allevati per la pelle. Non faremo mai come i grandi brand, che utilizzano la pelle di vitelli ancora allo stato embrionale per avere la materia prima più morbida. Dove c'è pelle, utilizziamo sempre quella che dovrebbe andare al macero e speriamo che in un giorno non troppo lontano non se ne possa trovare più. Ora stiamo lavorando con PET riciclabile, ottenendo scarpe esteticamente piacevoli e di grande qualità. Inoltre, siamo alla ricerca di nuovi sistemi di incollaggio, che sfruttino colle meno impattanti e sempre più naturali.

Quanto costano e dove si comprano le Womsh? Qual è il canale di vendita più performante?
Il prezzo medio delle Womsh è di 160 euro. Il nostro sistema distributivo è composto da retail di fascia medio-alta. I nostri partner più apprezzati sono quelli che si impegnano nella diffusione dei principi della moda etica. Da semplice cliente diventa nostro partner. Per questo stiamo creando una vera e propria academy per formare i retailer e farli diventare nostri ambassador. Anche nel canale digital scegliamo oculatamente i nostri partner. Non vendiamo su Amazon direttamente. Abbiamo il nostro e-commerce. Vogliamo che dai nostri prodotti passi questa idea: compra le nostre scarpe se davvero ne hai bisogno.

Qual è il modello più venduto?
Ce ne sono tre: la Snik, la Wave White Rose e la Concept.

Cosa non ci sarà mai in una sneaker Womsh?
Pelli esotiche, borchie, strass e cose non naturali. Non ci sarà mai il concetto di fashion che non rispetti la donna, il lavoro e i valori.

Uno dei vostri obiettivi è: «la moda deve restituire all’ambiente quello che prende». Come avviene questo in Womsh?
Womsh aderisce al progetto Impatto Zero®, che compensa le emissioni di CO2 ricreando foreste in Italia, Madagascar, Panama, Brasile e Costarica. Dal 2014 al 2019 abbiamo piantato 25.000
alberi, preservando 52.000 m2 di foreste e assorbendo 112.000 kg di CO2. Abbiamo anche recuperato 3.000 paia di sneakers dai nostri clienti, impiegandole nuovamente per creare o riqualificare la pavimentazione antitrauma dei parchi giochi per bambini, nell’ambito del progetto il “Giardino di Betty”.

Nelle vostre sneakers sarà integrata la blockchain: quali informazioni riuscirà ad avere l'utente finale di Womsh?
Vogliamo raccontare precisamente tutta la filiera: dove vengono prodotte le scarpe e come vengono distribuite, i materiali utilizzati, di cosa è fatto il packaging e soprattutto quali sono le attività post-vendita legate all'utilizzo. Questo passaggio ci permetterà di aumentare il grado di trasparenza e di essere esaustivi nei confronti del consumatore. I primi prodotti con Qr code usciranno a gennaio 2021.

La moda etica si scontra spesso con l'ostacolo del prezzo: non sempre accessibile a tutti, questo fattore limita un investimento in abbigliamento e accessori più sostenibili. Qual è secondo lei la ricetta per superare questo blocco?
Non credo che la moda etica costi di più. L'errore sta nel paragonare una scarpa Womsh a un'altra ache viene dalla Cina. Il confronto di prezzo va fatto un altro prodotto made in Italy. Ciò che suggerisco è di fare un paragone con il vino. Il fast fashion costa meno perché la differenza la sta pagando qualcun altro. È come mettere a confronto una bottiglia da 4 euro e una da 20. La strategia da seguire è un'altra.

Cioè?
Consumare meno, ma beni di maggior valore. Dobbiamo uscire dalla frenesia che gli acquisti ci diano appagamento: è una sconfitta per l'ambiente e per tutti noi. Il fast fashion sta arricchendo pochissime persone e sta danneggiando il nostro ambiente. Meglio comprare un prodotto che ha fatto un certo tipo di percorso, perché è un investimento. Per incentivare questo percorso, stiamo studiando formule di pagamento innovative, compresi leasing e rate, per agevolare l'acquisto da fasce di clientela specifiche come i giovani.

Qual è il futuro della moda etica? Quali sono le armi per vincere la sfida contro il fast fashion?
L'arma più importante è la comunicazione. Per questo i progetti di moda etica devono raccontarsi in modo smart. Dobbiamo uscire da questo angolo in cui ci siamo un po' autoconfinati, dove la moda etica è per una elite in grado di comprendere. La moda etica è per tutti, tutti devono avere accesso all'acquisto di questi prodotti. Per arrivare a questo bisogna attivare certe leve di comunicazione pop. La moda etica non è una cosa da fricchettoni e ambientalisti, deve essere una cosa da fighi.

Quali sono i progetti per il futuro di Womsh?
Vogliamo espandere i nostri mercati esteri, che hanno già raggiunto il 60 per cento del nostro fatturato. Poi vogliamo creare una rete di 300 clienti partner, con rivenditori capaci di parlare di Womsh con la competenza e la determinazione con cui lo facciamo noi. Inoltre, vogliamo metterli in condizione di vendere anche quello che non hanno in negozio. Puntiamo anche a creare rapporti più stretti tra clienti e azienda. Presto si potrà fare esperienza qui da noi, creando una connessione umana, cosa che online non si può fare.