La storia di Diletta Bellotti, l'attivista pugliese che lotta contro il caporalato con il movimento Pomodori Rosso Sangue.
Venticinque anni appena e l'entusiasmo vivo e attivo dell'età azzurra. Mentre risponde alle nostre domande Diletta Bellotti si muove, gesticola, fende l'aria con le braccia e le mani ... quasi come se avesse bisogno di spazio fisico per parlare. Diletta è bella, di quella bellezza calda tipica di certi luoghi del Sud. I suoi gesti fanno rima con la voce che si accende quando parla dei temi che le stanno a cuore. Lei è la fondatrice di Pomodori Rosso Sangue, campagna informativa per sensibilizzare sullo sfruttamento dei braccianti nelle nostre campagne. Armata di pomodori maturi e sangue finto ha portato se stessa e il suo corpo di donna nelle piazze d'Italia per ottenere giustizia sociale. Giustizia per tutti, per le donne, in particolare. Perché, anche se pochi ne parlano, quella dello sfruttamento nei campi è (anche) una questione femminista.
Chi è Diletta Bellotti?
«È una ragazza di 25 anni, un'attivista che si occupa della questione dei braccianti e della lotta contro le agromafie» .
Cos'è “Pomodori Rosso Sangue”?
«Una campagna di sensibilizzazione che vuole informare sullo sfruttamento nelle campagne in Italia e in Europa. Nasce da una ricerca accademica sui movimenti bracciantili e poi si sviluppa nelle piazze in Italia al fianco di attivisti, accademici e cittadini normali che si vogliono impegnare per la giustizia sociale» .
Come mai hai deciso di usare il tuo corpo di donna come veicolo di un messaggio sociale?
«Io credo che tutto quello che facciamo da donne sia un atto politico, quindi anche occupare lo spazio in una piazza è una questione molto politica. E per me è stato essenziale utilizzare il mio corpo per una lotta politica, per la giustizia sociale. La mia è anche una lotta femminista» .
In che senso?
«Questa è una lettura che raramente viene proposta, ma quello dello sfruttamento dei braccianti è anche una questione femminista: le donne non solo lavorano 12 ore nei campi ma vengono anche stuprate. Tantissime donne sono costrette in prostituzione, sono vittime di tratta e parallelamente lavorano nei campi. Fanno questo “doppio lavoro”» .
Perché hai scelto i pomodori come metro di riferimento del caporalato?
«Ho iniziato a concentrarmi sui pomodori perché sono stata ospite di un ragazzo a Borgo Mezzanone durante la raccolta del pomodoro nell'estate 2019. La raccolta del pomodoro è quella più famosa quando si analizzano le agro mafie perché è quella è cui si muore di più: facendo più caldo muore di fatica molta più gente. Ma pomodoro rosso sangue è legato a tutto quel che mangiamo, non solo al pomodoro» .
C'è molta disinformazione sul caporalato in Italia: cosa può fare, ognuno di noi, nel suo piccolo, per contrastare questa piaga sociale?
«Bisogna informarsi, mettere pressione a giornali, istituzioni, politici e a tutte le persone coinvolte per farne parlare sempre di più e schierarsi al fianco degli attivisti e di tutti i movimenti che contrastano questo sistema mafioso. Per poi cercare nel proprio piccolo di fare scelte di consumo etico» .
Hai vissuto in una baraccopoli pugliese... qual è la cosa più importante che ti sei portata dietro dopo questa esperienza?
«Prima di partire, avendo letto Alessandro Leogrande, un esperto di queste questioni, mi aspettavo ci fossero tanta violenza e povertà. Mi ha sconvolto di più la forza aggregativa dell'umanità: di quanto le persone siano in grado in condizioni estreme, ai margini delle società occidentali, di ricreare società, comunità... essere solidali, giusti, forti» .
Ti va di condividere con noi il tuo ricordo più bello legato a un bracciante? O la sua storia….
«La storia che voglio raccontare è quella mia e quella di Orzo, il ragazzo che mi ha ospitato in una baracca per più di un mese. Una storia di amicizia, forse la storia più bella. Che dimostra come queste persone prima di tutto abbiano bisogno del nostro affetto, del nostro supporto. Lui è cambiato molto nell'ultimo anno. Adesso forse riuscirò a farlo uscire dal ghetto, a trovargli un lavoro e risolvere la situazione di irregolarità in cui ha vissuto. E questa è una vittoria, ma è l'unica vittoria che posso raccontare. Ci è voluto un anno e mezzo e metà del mio stipendio» .
Qual è la differenza tra un bracciante italiano e un bracciante straniero?
«Principalmente gli stranieri sono maschi, le italiane donne. La principale differenza, anche storica, è data dal fatto che il bracciante italiano viene sfruttato in una comunità ma vive in quella comunità. Le agromafie ora sono molto più forti perché i braccianti stranieri sono degli invisibili, vivono ai margini della società, nelle baraccopoli, nei casolari abbandonati. Non sono nella posizione di appoggiarsi a una comunità o alle istituzioni per ribellarsi. Quindi vengono tagliati completamente fuori ed è molto più facile sfruttarli. Questa è la forza della mafia di ora: prendere delle persone, usarle e gettarle via».
Cos'è la “morte per fatica”?
«Sono le morti in agricoltura, succedono perché il corpo non ce la fa a lavorare 12 ore sotto il sole senza acqua e senza cibo. Si muore proprio di fatica» .
Le conseguenze della pandemia sul caporalato in Italia.
«Io durante la pandemia sono stata fortunata da poter non andare al lavoro. La pandemia ha rafforzato tutte le ingiustizie che ci sono nella nostra società e ha reso molto visibile la questione braccianti e sfruttamento. Per la prima volta in Italia la gente si è resa conto che se i lavoratori irregolari non si fossero potuti spostare da una parte all'altra d'Italia nessuno avrebbe raccolto il cibo e quindi il cibo non sarebbe potuto arrivare nei supermercati. E questo ha portato a delle conseguenze, relativamente, positive, come la sanatoria dei migranti» .
Essere un’ attivista: qual è il risultato più significativo che hai raggiunto in questi anni?
«Io non mi sento di aver fatto molto, ma essendo più indulgente con me stessa, sono convinta di aver reso questa questione più accessibile, soprattutto a quelli della mia generazione. A farne parlare di più e a dare strumenti per parlarne. Essere un esempio per persone che vogliono fare cose simili» .
Tu sei molto attiva nella piazza selvaggia dei social: hai riscontrato delle differenze di atteggiamento nel confronto con baby boomers, millennials e tuoi coetanei? Sei riuscita a sensibilizzare qualche “scettico” alla tua causa?
«Penso di aver sensibilizzato i miei coetanei e soprattutto quelli un po' più piccoli, della generazione Z, che penso siano la generazione più forte e attiva politicamente» .
Come si vede Diletta Bellotti tra 10 anni?
«Sempre in piazza, che combatto per le ingiustizie. Spero che avrò ottenuto qualche vittoria e che avrò portato avanti sempre più battaglie per l'affermazione pratica di uno stato sociale di diritto che adesso sembra ancora un'utopia. Mi vedo sempre al fianco degli oppressi, magari anche nelle istituzioni, se sarà il caso e se ne sarò in grado, per fare dei cambiamenti strutturali nella nostra società» .