Cambiamenti climatici, pesca non sostenibile, trivellazioni, estrazione di minerali dai fondali e altre attività umane determineranno la distruzione degli ecosistemi delle profondità oceaniche.
Cambiamenti climatici, pesca non sostenibile, trivellazioni, estrazione di minerali dai fondali e altre attività umane determineranno la distruzione degli ecosistemi delle profondità oceaniche.Tra gli ecosistemi più fragili e misteriosi del nostro pianeta, quello del profondo Oceano rischia seriamente di essere distrutto da fattori antropici come i cambiamenti climatici determinati dalle azione dell’uomo.
Pesca sconsiderata, trivellazioni ed estrazione di minerali dai fondali (deep-sea mining) insieme al global climate change, all’ acidificazione degli oceani e allo sbiancamento delle barriere coralline. Sono tutti fattori innescati dalle attività umane che si stanno drammaticamente ripercuotendo sugli ecosistemi marini, soprattutto nella profondità degli oceani, che per convenzione sono tutte le acque che si trovano al di sotto dei 300 metri di profondità.
Prendendo in considerazione tutti i fattori di stress che già oggi sono in atto e tenendo conto dei probabili sviluppi, un team di scienziati provenienti da 20 diversi istituti di ricerca, ha ricostruito le condizioni degli oceani nel 2100 e il risultato è stato drammatico.
Entro fine secolo, in questa parte inesplorata della Terra ma preziosa per la biodiversità e il clima, le riserve di cibo diminuiranno fino al 55%, lasciando senza un sostentamento sufficiente animali e microbi che la abitano.
Ciò dipende principalmente dal riscaldamento degli oceani, infatti le acque comprese tra i 200 e i 3 mila metri di profondità nell’Atlantico, nel Pacifico e nell’Artico diventeranno fino a 4°C più calde, mentre le acque degli abissi fino a 6 mila metri potrebbero diventare più calde di 0,5-1°C.
Questo riscaldamento determinerà un effetto a catena portando innanzitutto alla diminuzione della concentrazione di ossigeno nell’acqua che potrà arrivare fino a -3,7% aumentando le cosiddette “zone morte”.
Contemporaneamente gli oceani assorbiranno più CO₂ dall’atmosfera e aggravando il processo di acidificazione che mette a serio rischio la sopravvivenza di molluschi e coralli.
Come conseguenza tutti questi fattori indurranno, in alcune profondità marine come in quelle dell’oceano Indiano, al dimezzamento della quantità di materia organica disponibile.
Andrew Sweetman, docente dell’università di Edinburgo e co-autore dello studio pubblicato sulla rivista Elementa, sottolinea che oltre ai cambiamenti climatici, anche le attività umane metteranno a repentaglio questi ecosistemi.
E’ il caso della pesca invasiva, dello sversamento di sostanze inquinanti nelle acque, delle trivellazioni dell’oil&gas e del crescente interesse verso il deep-sea mining, cioè dell’estrazione di minerali dai fondali.
Purtroppo molte delle aree che risultano interessate all’attività di estrazione delle risorse coincidono proprio con le zone che saranno più colpite dall’impatto del climate change.
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