Anna Detheridge spiega come i percorsi formativi aiuteranno sempre più stilisti a rompere gli schemi di un ormai superato fast fashion.
Anna Detheridge spiega come i percorsi formativi aiuteranno sempre più stilisti a rompere gli schemi di un ormai superato fast fashion.Fare e scegliere la moda etica non è solo questione di volontà. Ci sono alcuni ingredienti fondamentali in questa missione, tra cui consapevolezza e strumenti per la rivoluzione. Questi concetti li ha messi insiem Out of Fashion, il primo corso di formazione nell’ambito della moda sostenibile, etica e consapevole.
Qui arriva chiunque abbia voglia di ampliare l'orizzonte del proprio lavoro nella moda: giovani talenti, consulenti per grandi brand, appassionati. Tra i marchi che hanno beneficiato dei corsi targati Out of Fashion c'è ANIMAdVERTE di Laura Tolfo e teeshare di Francesca Mitolo.
Ecco come la formazione può aiutare gli stilisti e i consumatori a incontrarsi a metà strada, fare del bene al pianeta senza rinunciare al proprio stile.
Il progetto Out of Fashion
Nato nel 2014 da Connecting Cultures, Out of Fashion ha l'ambizioso obiettivo di "promuovere una nuova cultura della moda attraverso un pensiero originale e indipendente, focalizzato sulla produzione e scambio di saperi interdisciplinari tra giovani professionisti del settore e un team multiforme di esperti internazionali nel campo della moda, dell’arte, dell’etica, della produzione, della comunicazione e dell’economia".
«Con gli anni abbiamo capito che la formazione è sempre più importante. Non in senso formale e accademico, ma in senso informale. Con corsi brevi, giornate, consulenze, diamo alle persone maggiore consapevolezza sul tema della sostenibilità, soprattutto nell'ambito del tessile ed accessori», spiega Anna Detheridge, critica d'arte, giornalista e docente di arti visive, nonché una delle anime di Out of Fashion.
Uno dei temi toccati in questi incontri è quello del surplus della produzione, del consumo eccessivo, «che non dipende dalla necessità, ma da un grande desiderio, quasi incolmabile e spesso indefinito», aggiunge Detheridge. «Spesso non sappiamo perché compriamo una cosa in più quando non ne abbiamo davvero bisogno. Crediamo che la consapevolezza di cosa si consuma e come sia molto importante».
L'industria tessile è ritenuta la seconda più inquinante al mondo. Basti pensare che molto di quello che si consuma, finisce nelle discariche, non è riciclabile o si ricicla molto poco perché i materiali non sono puri. Ma non basta sentirsi a posto perché compro una maglietta di cotone e non inquino, anche perché si tratta di un tessuto che richiede molta acqua e molto terreno. «Ci vuole una visione sistemica», spiega l'esperta.
Come si crea il cambiamento nella moda?
Nel 2017 Out of Fashion realizza il libro Fashion Change, gettando un nuovo sguardo sul mondo della moda. Ma come si crea il cambiamento? «Attraverso una maggiore conoscenza di tutti i processi e di tutti i passaggi – spiega Detheridge – Quando sai che anche il grande brand che vende abiti esclusivi a cifre molto alte, sottopaga le persone che lavorano in Bangladesh in in condizioni come quelle del Raza Plaza, si inizia a riflettere».
«Oggi i marchi sono più attenti e vanno a ispezionare le fabbriche con cui lavorano. Ma nel momento in cui mandano ordini eccessivi rispetto alla possibilità produttiva di quella unità, spesso queste fabbriche terziarizzare il lavoro e succede che si crea una catena di produzione non realmente certificata, perché non si conoscono le condizioni di quelle lavoratrici», aggiunge l'esperta.
Moda etica: rinuncia allo stile?
Si crede che acquistare capi fatti secondo i criteri della moda etica e sostenibile significhi rinunciare allo stile. Ciò non è vero. «È divertente vestirsi in tante maniere diverse, ma bisogna capire anche cosa significa divertirsi variando il proprio look, essendo più creativi, cercando abiti che costano meno, abbinarli insieme in maniera diversa», spiega Detheridge.
Nel libro Fashion Change si percepisce la possibilità di una moda più libera, in cui le persone possono scegliere come abbinare cose diverse tra loro, acquistate magari nei mercatini, pensate per forgiare una propria immagine nuova, «senza spendere nei marchi, senza pensare di variare con 10 magliette da 5 euro, che sicuramente sono il frutto dello sfruttamento di qualcuno e fanno male all'ambiente».
Moda etica: una questione di prezzo
Il problema del fast fashion è che è goloso, come i biscotti. Comprare 10 magliette, riempire l'armadio appaga quel desiderio di possesso che fa gola soprattutto a chi non dispone di molte risorse. Dall'altra parte ci sono i capi slow fashion: più costosi, qualitativamente superiori e sostenibili. «La dicotomia fast fashion-slow fashion mi sembra un po' superata. La parola “Slow” sembra quasi una forma di condanna – puntualizza Detheridge – Tutti abbiamo troppa roba, magliette più o meno uguali, che laviamo incessantemente».
La vera rivoluzione si chiama cambio di mentalità. Si compra una maglietta da 20 euro in su per avere una migliore qualità del cotone, che permette al capo di durare di più. «Si devono leggere le etichette, cercare delle garanzie e chiedere da dove viene: aiutandoci anche con il QR code, posso conoscere la tracciabilità».